Smartphone in classe? “Vi dico quando è utile”. Intervista ad Eva Pigliapoco

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“Le conoscenze che forniamo oggi potrebbero non essere ancora valide quando i nostri alunni saranno grandi. Occorre seriamente operare una valutazione epistemologica”, spiega Eva Pigliapoco, maestra della scuola primaria “Gianni Rodari” di Modena.

“Nella mia scuola – aggiunge lei, che conclude tutti i suoi post con il motto #solocosebelle – i bambini imparano a programmare il computer fin dalle prime classi”. Coinvolgimento precoce dei bambini nella didattica digitale, tra esperienze virtuose e arretratezza tecnologica delle scuole. Continua il dibattito sul nostro giornale dopo la nostra intervista a Valentina Aprea in merito all’urgenza dell’uso delle tecnologie digitali nella didattica e dell’insegnamento del coding fin dalla scuola dell’infanzia.

Eva Pigliapoco è pure formatrice nell’ambito delle nuove tecnologie applicate alla didattica, formatrice sull’apprendimento cooperativo e sulla didattica per competenze. E’ autrice di libri di testo, kit multimediali, guide didattiche e articoli in diverse riviste specializzate sulla didattica. Da anni è  formatrice su vari temi: le competenze, didattica e valutazione. La valutazione di conoscenze, abilità e competenze. Storytelling (analogico e digitale). La didattica inclusiva.

L’apprendimento cooperativo. Gli ambienti di apprendimento per lo sviluppo di competenze. La didattica della scrittura. Il metodo di studio. La gestione della classe. Il gioco e la scrittura. Ha lavorato con Raffaello Editrice, Gaia Edizioni. Lavora ora con Erickson Edizioni, Fabbri Edizioni e collabora con la rivista Essere a Scuola, Morcelliana Editrice. Insomma, ne sa. Il suo sito evapigliapoco.it è una miniera di materiale prezioso e sulla sua pagina pagina facebook è seguitissima perché non è certo gelosa delle preziose conoscenze e competenze acquisite in tanti anni di impegno scolastico.

Eva Pigliapoco, c’è un dibattito in merito all’opportunità di un coinvolgimento precoce dei bambini nella didattica digitale. Lei è una maestra che usa con entusiasmo gli strumenti digitali con i suoi bambini. Quali sono i risultati?

“Sì, il tema del digitale oggi è al centro del dibattito pedagogico. E sì, è vero, uso con entusiasmo il digitale anche nella didattica, ma li uso in modo molto selettivo. Non sono una che insegue l’ultima app del momento o l’ultimo gadget tecnologico. Il digitale che uso è quello che facilita il processo di insegnamento-apprendimento e quello che potenzia le possibilità didattiche”.

Può fare qualche esempio pratico di una sua lezione o laboratorio digitale? Usa anche il coding?

“Esempi se ne potrebbero fare molti. A me piace integrare le nuove tecnologie nella didattica della scrittura creativa: in questo campo, la differenza tra una “didattica analogica” e una assistita dal digitale è notevole. A favore, ovviamente, del digitale. Scrivere, argomentare, descrivere, raccontare sono tutte competenze importanti. Quando la tecnologia, in questo caso la LIM e un software progettato ad hoc qualche anno fa, con Ivan Sciapeconi, edito dalla Erickson, si integra a una metodologia cooperativa e a strumenti analogici, come la carta e la penna, ecco, il laboratorio è perfetto. Ma di esempi ne potrei fare tanti: mi piace utilizzare alcune applicazioni che rendono semplice l’organizzazione delle attività: dalla formazione casuale dei gruppi di lavoro alle verifiche con i QR code”.

Ritiene utile anche l’uso dello smartphone in classe?

“Ritengo molto utile l’utilizzo del telefonino o del tablet per documentare le attività, da parte del docente, o per realizzare video, da parte di bambini. Una volta fornite le indicazioni principali per montare semplici video, i bambini si attivano per produrre videorecensioni di libri, o tutorial per realizzare un manufatto. Mi sembra un uso intelligente dei device. Poi abbiamo il sito di classe, in cui noi docenti inseriamo  spesso le presentazioni, i video o i link utili per ripassare le lezioni, e i bambini i loro lavori extra: il digitale aiuta anche in questo senso, a fare compiti in più. Nella mia scuola i bambini imparano a programmare il computer a partire dalle prime classi. In questo settore ho contribuito a creare una soluzione didattica per l’apprendimento del coding in analogico. Lo abbiamo chiamato “Analogico Scratch”: questo per sottolineare che il digitale non sostituisce, a mio avviso, l’analogico, ma lo integra e lo potenzia. L’obiettivo è sviluppare una competenza, lo si fa con tutte le risorse a disposizione”.

Come rispondono gli alunni e le famiglie?

“Bene, direi. La differenza la fanno i risultati. Le famiglie sanno che il futuro dei loro bambini è segnato da quella che noi abbiamo vissuto come una rivoluzione ma che è, a tutti gli effetti, la normalità per chi oggi ha dai 6 agli 11 anni. Il tratto fondamentale, nei rapporti con la famiglia, è la chiarezza: i genitori devono sempre sapere come e perché si svolgono determinate attività. Questo, ovviamente, non vale solo per le scelte digitali”.

Alcuni parlamentari – Valentina Aprea, Maria Stella Gelmini e altri – hanno appena presentato una mozione che impegna il governo a risolvere il problema della presunta arretratezza tecnologica e digitale delle nostre scuole. La scuola, si sostiene, non può più ignorare la rivoluzione digitale in atto e continuare a proporre discipline e metodi antiquati. Che cosa ne pensa?

“Girando molte scuole come formatrice, ho l’impressione che la situazione nel nostro Paese sia piuttosto variegata. Ci sono situazioni di assoluta eccellenza, in linea con gli standard internazionali, e situazioni in evidente difficoltà. A differenza di quanto si può immaginare, la separazione non coincide con la classica divisione Nord-Sud: ci sono realtà innovative e arretrate nelle stesse città. Immagino sia un effetto negativo dell’autonomia scolastica. Se si vuol intervenire, bisognerebbe analizzare nel dettaglio le singole istituzioni scolastiche”.

Viene denunciato un certo ostruzionismo da parte di tanti docenti che continuerebbero a snobbare i nuovi strumenti e le nuove tecnologie digitali. E’ così?

“No. Se prendiamo diversi comparti del pubblico impiego e li mettiamo a confronto, a mio avviso gli insegnanti ne escono più che bene. Anche in considerazione dell’elevata età media della classe docente non si può ignorare il fatto che ci sia stato un grande sforzo di aggiornamento. Su questo punto, in particolare, ci sarebbe molto da dire. Un buon aggiornamento è quello che non si limita a proporre l’ultima novità alla moda, ma propone metodologie e “senso” didattico. Ecco, su questo ci sono stati degli errori di indirizzo, a mio avviso. Poi, ovviamente, esistono le resistenze e non tutti usano le tecnologie con un approccio innovativo o critico, ma siamo solo a metà del guado.

La nostra generazione è quella dei “digital immigrants”, non possiamo nasconderlo”.

Secondo lei è infondato il rischio, paventato da alcuni neuropsichiatri, secondo cui l’uso precoce del digitale potrebbe indurre problemi nell’apprendimento e anche nella salute mentale dei nostri alunni?

“Sì, ogni età ha il proprio specifico. Dal mio piccolo osservatorio posso rilevare, per esempio, che i bambini hanno normalmente un approccio precoce ai device, fin dai primissimi mesi di vita, poi ai social e alla fruizione autonoma del web, già nella fascia d’età di cui mi occupo. A scuola dobbiamo riannodare i fili, provare a utilizzare i mezzi e le opportunità del digitale anche per educare a un uso consapevole della rete. Non è facile e siamo ancora in affanno, ma la battaglia è fondamentale per la costruzione di una cittadinanza digitale: non possiamo rinunciare. Le ricerche sull’apprendimento vanno in tutte le direzioni. Personalmente, in attesa di risultati stabili, mi ispiro a una logica di buonsenso: uso consapevole, significativo e in un contesto didattico ben progettato e verificato”.

Conoscenze contro competenze. Anche su questo fronte c’è un aperto dibattito tra coloro che prediligono le prime e quanti insistono sul saper fare. Provi a convincere i lettori che la didattica per competenze è quella più utile per gli alunni.

“Il dibattito ha poco senso, a dir la verità. Un’efficace didattica per competenze include una buona dose di conoscenze e, contemporaneamente,  una didattica che voglia favorire l’acquisizione funzionale delle conoscenze deve far riferimento allo sviluppo delle competenze. Non si sfugge.

Qualsiasi competenza si regge sulle conoscenze: un automobilista competente deve conoscere le regole della strada, i segnali stradali, le funzioni di pedali dell’auto e un sacco di altre cose. Così vale per il musicista competente, pensi a quante conoscenze deve avere, o per il dottore competente. Per un giornalista, per un insegnante. E allora, facciamo un esempio: l’acquisizione del metodo di studio, una competenza presente storicamente nella scuola italiana. E’ possibile sviluppare un metodo di studio senza veicolare conoscenze? E, dall’altra parte, è possibile far arrivare agli alunni un insieme organico di conoscenze senza favorire lo sviluppo di un metodo di studio? No. A meno che non si voglia sviluppare un approccio mnemonico e nozionistico. La didattica che punta alle competenze, inoltre, è la didattica che poggia sulla creatività e sull’inclusione. Due parole chiave, nel mio intendere la scuola. Quando lo spartito è lo stesso per tutta l’orchestra-classe, ma ogni bambino suona il suo strumento per quello che può dare e fare, mettendo in campo le proprie risorse interne ed esterne, anche a livello di pensiero creativo, ecco, si sta facendo scuola a tutti e a ciascuno. Senza livellare le proposte su uno pseudo-standard che esclude i fragili ma anche i plusdotati”.

Si legge spesso nei vari Ptof che occorre puntare alla essenzializzazione del sapere. Che cosa ne pensa?

“Negli anni abbiamo assistito a un aumento esponenziale dei saperi tipicamente scolastici. E’ cambiato il rapporto con le discipline, sono aumentate le necessità educative e la sensazione è quella di un overload dei saperi scolastici. La ricerca dei saperi essenziali parte da qui e dal fatto che le conoscenze che forniamo oggi potrebbero non essere ancora valide quando i nostri alunni saranno grandi. Occorre seriamente operare una valutazione epistemologica. E’ un problema reale, ma il processo che abbiamo sotto gli occhi porta con sé anche una sostanziale semplificazione del sapere. Se mettiamo a confronto i libri di testo di dieci o quindici anni fa e quelli attuali ci rendiamo conto che chiediamo sempre meno ai nostri alunni, da un punto di vista della complessità. E’ un versante pericoloso, a mio avviso, e non mi sembra che su questo ci sia la giusta attenzione o un dibattito adeguato. In conclusione… digitale, analogico, conoscenze e competenze, tutti gli ingredienti con cui facciamo scuola ogni giorno hanno un unico, importante obiettivo: fare con i bambini #solocosebelle”.

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