Smartphone in classe, Bruschi: scelta e non obbligo

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Il 19 gennaio u.s., il Miur ha pubblicato il Decalogo sull’uso dei dispositivi digitali in classe, quale ad esempio lo smartphone. 

Uso del cellulare in classe a fini didattici: ecco il decalogo ufficiale del Ministero. Scuole decideranno in autonomia

Al punto 7 si legge che il digitale nella didattica è una scelta e che spetta ai docenti introdurla in classe.

Il suddetto punto del decalogo sembra contrastare con l’utilizzo del modo verbale in tutti i punti, ossia l’indicativo, che è il modo dell’obbligo, come sottolineato dall’Ispettore del Miur, Max Bruschi, in un post sul proprio profilo FB.

L’Ispettore evidenzia che nell’utilizzo dei  dispositivi digitali non dovrebbero esserci obblighi, considerato che si sta parlando di didattica.  Per Bruschi,  non sempre innovare è migliorare, e perché se sulla didattica vi è libertà, figuriamoci sui “mezzi” che della didattica sono meri strumenti, come appunto i dispositivi digitali.

Ecco l’intero post dell’Ispettore:

“Mi lascia perplesso l’uso dell’indicativo nel “decalogo” che dovrebbe governare (detto in termini giornalistici… e dunque errati, perché di tutt’altro si parla) “l’uso dello smartphone in classe”. L’indicativo è il modo dell’obbligo. E qui di obblighi non vorrei ce ne fossero, perché la materia è delicata, visto che si è andati ben oltre il consentire o meno di portarsi i “device” a scuola (e basterebbe il buon senso e la buona educazione). Si è andati sulla didattica. Bene. Ci sono modalità didattiche per le quali l’uso delle ICT è da considerarsi perlomeno estraneo. Ci sono, d’altra parte, già scuole e sezioni, singoli docenti, che adottano integralmente una didattica basata sulle nuove tecnologie; altri che lo fanno a tempo e luogo. Senza bisogno di PUA (“A questo proposito ogni scuola adotta una Politica di Uso Accettabile delle tecnologie digitali”), la cui adozione rischia anzi di ottenere l’effetto inverso, perché cosa sia o meno accettabile nell’utilizzo di un “mezzo” non è forse opportuno regolamentarlo a priori. Altri, legittimamente, non usano le ITC, o perché non le conoscono o non le sanno applicare (il che è un male, come un male è non saper gestire la didattica frontale, partecipata, cooperativa: perché la cassetta degli attrezzi di un insegnante deve essere completa), o perché, e ciò è degno di tutela, non le ritengono utili o adatte al loro stile di insegnamento, posto che occorrerebbe partire dall’unico presupposto, dall’alfa e dall’omega, che dovrebbe guidare l’azione didattica: la sua efficacia. Sull’efficacia di un uso massivo delle ICT diciamo che il dibattito scientifico (basato su dati ed evidenze: non sulla “pancia”) è perlomeno aperto, ed è corretto sottolineare che “i dispositivi devono essere un mezzo, non un fine”. Ma è appunto sui mezzi che occorre intendersi, e sull’enfasi data all’innovazione, perché non sempre innovare è migliorare, e perché se sulla didattica vi è libertà, figuriamoci sui “mezzi” che della didattica sono meri strumenti. Il che non toglie che sia doveroso, per una istituzione scolastica, garantire le condizioni per poter utilizzare le ICT (a partire dalla connessione) e, per un docente, conoscerle e formarsi, in maniera da poter valutarle il loro utilizzo (se, come, quando) in scienza e coscienza, e che il numero 10 (“educare alla cittadinanza digitale è un dovere per la scuola”) e il numero 6 (“bisogna sostenere un approccio consapevole al digitale nonché la capacità d’uso critico delle fonti di informazione”) sono indicazioni sacrosante, posto che alla base c’è quell’educazione alla cittadinanza e alla ricerca critica che è peraltro il “dato costitutivo” dell’istruzione pubblica da sempre.
Sarò passatista, sarò poco smart e per nulla cool, ma resto indissolubilmente legato alla riserva costituzionale della libertà di insegnamento, che non è anarchia di insegnamento, ma è da collocare nel quadro delle regole e degli obiettivi definiti dal legislatore (ordinamenti didattici, indicazioni nazionali, contratto, codice di comportamento) e che ha come riserva costituzionale correllata il diritto all’apprendimento. E resto fermo a quanto scolpito in maniera inequivocabile dalla norma che regge l’autonomia delle istituzioni scolastiche, ovvero al dpr 275/1999: “L’autonomia delle istituzioni scolastiche è garanzia di libertà di insegnamento e di pluralismo culturale e si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire loro il successo formativo, coerentemente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema di istruzione e con l’esigenza di migliorare l’efficacia del processo di insegnamento e di apprendimento” (art. 1 c. 2). Il PTOF “comprende e riconosce le diverse opzioni metodologiche, anche di gruppi minoritari”, e “valorizza le corrispondenti professionalità” (art.3 c. 2). Sono norme, a tutela della libertà di tutti. Spero che il decalogo (pure, in sé, ben costruito) sia presentato alle scuole per quello che, nel quadro delle norme, è, e non per (l’ennesima) parola d’ordine cui omologarsi in nome dell’attualità”.

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