Santerini, anno prova “valutare innovazione didattica”. Scuola-lavoro fin dal biennio, non voltare spalle a TFA

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Nel tentativo di anticipare le direttrici che prenderà il dibattito sul ddl scuola a Montecitorio, abbiamo rivolto alcune domande a Milena Santerini.

Nel tentativo di anticipare le direttrici che prenderà il dibattito sul ddl scuola a Montecitorio, abbiamo rivolto alcune domande a Milena Santerini.

Membro della VII Commissione Cultura e Istruzione della Camera, la deputata del gruppo ‘Per l’Italia’ nella fase di gestazione del documento ha condotto una strenua battaglia per il conferimento di una maggiore selettività all’anno di prova, finora considerato una mera formalità. La nostra intervista parte proprio da questo punto.

Onorevole, le sue indicazioni sull’anno di prova sono state recepite appieno dal documento approdato a Montecitorio. Ne è soddisfatta? Pensa che basteranno le generiche ‘ispezioni’ di cui parla l’articolo 9 a verificare il mix di competenze che fanno di un docente un buon docente? Ma le rovescio anche la domanda: quale stile di insegnamento non supererebbe la prova, secondo lei?

“Voglio innanzitutto ribadire che il mio approccio sarà costruttivo e volto a migliorare gli aspetti che mi pare necessitino ancora di una riflessione e di una messa a punto. E’ evidente che la nuova formulazione dell’anno di prova pecca di una certa genericità, bisognerà delimitare bene ciò che si prenderà in considerazione e i docenti saranno messi al corrente fin da inizio anno degli obiettivi che dovranno raggiungere e su cui, appunto, saranno valutati”.

Quali immagina che possano essere questi obiettivi?

“Darei grande spazio alla capacità di autoaggiornamento, di coinvolgimento della classe attraverso metodologie didattiche innovative, mentre per esempio non darei peso ai voti degli studenti nel tentativo di tracciare un legame deterministico con la bravura del docente. Credo, insomma, che nel corso dell’anno di prova anche gli insegnanti debbano essere al centro di una valutazione formativa”.

Teoricamente, quindi, non c’è nulla da temere, proprio come avveniva in passato.

“La vedrei proprio in questo modo, l’anno di prova sarà un’occasione di aggiornamento e di formazione, non l’ennesimo ostacolo da superare prima del posto a tempo indeterminato”.

L’inasprimento paventato dal ddl potrebbe restare, allora, lettera morta.

“E’ evidente che questa formulazione è il tentativo in extremis di dare ai dirigenti uno strumento efficace per allontanare dall’insegnamento eventuali aspiranti docenti davvero inadatti a questo lavoro. Le ricordo che a ricevere la proposta di assunzione ci saranno persone che non insegnano da anni o che addirittura non hanno mai messo piede in un’aula”.

Prima ha parlato di autoaggiornamento, una modalità in cui evidentemente spera anche il Governo visti i soldi che ha stanziato per l’agevolazione dei consumi culturali dei docenti.

“Penso che a questo proposito molto si debba ancora costruire e non so fino a che punto sia ragionevole puntarvi così tanto. C’è da sperare davvero che la card non venga usata soltanto per il biglietto del cinema, ma come voucher per la partecipazione a esperienze formative in senso stretto. Quello della formazione dei docenti resta un tema spinoso e di non facile soluzione: in passato abbiamo sperimentato modelli che non hanno dato i risultati attesi, mi riferisco per esempio alle lezioni frontali che non riuscivano a mettere in moto nessun processo veramente dinamico. Dovremmo trovare il modo di investire su modalità di lavoro in gruppo sotto la guida di un supervisore, esperienze che finora, dove e quando sono state attuate, hanno dato ottimi risultati”.

Ci sono temi che secondo lei avrebbero meritato una maggiore attenzione in questo momento? Pensiamo per esempio alla dispersione, che sappiamo essere al centro dei suoi interessi di studiosa: dopo i dati allarmanti degli ultimi anni era forse lecito aspettarsi qualcosa di più dal ddl.

“Sì, il Governo ha dovuto puntare tutto sulle assunzioni, vista la difficile eredità storica e i pronunciamenti della Corte Europea. Penso tuttavia che i riflettori sulla dispersione si potrebbero riaccendere a proposito dell’alternanza scuola-lavoro”.

È soddisfatta di come è stata formulata?

“Non fino in fondo. Sappiamo che nel biennio degli istituti tecnici e professionali il 75% delle bocciature prelude all’abbandono scolastico, mi domando perché non si possa far partire l’alternanza già dal primo biennio. Purtroppo operare senza verificare i risultati che si avrebbero facilmente a disposizione è un modo di procedere frequente quello del nostro Parlamento”.

Questa desultorietà nel metodo sta caratterizzando, a nostro avviso, anche il dibattito sulla formazione iniziale degli insegnanti. Negli ultimi quindici anni abbiamo esperito un buon modello, quello delle SSIS prima e del TFA poi, ma l’impressione è che si stia facendo nuovamente di tutto per ripartire da zero.

“Concordo con lei, ogni Governo vuole il suo anno zero quando si parla di riforma della scuola. In particolare il Tirocinio Formativo Attivo sarebbe un’esperienza a cui non voltare le spalle, visto che ha messo in campo ottime risorse per la costruzione di vere didattiche disciplinari che in qualche modo superano la dicotomia tra contenuti da un lato e competenze didattiche e pedagogiche dall’altro. Sottolineo sempre che il ‘come’ e il ‘cosa’ non possono essere disgiunti”.

In una precedente intervista sembrava però essere favorevole al biennio specialistico abilitante. Pensa ancora che il solo triennio sia in grado di assicurare una base culturale sufficiente ai futuri docenti? Questo argomento sarà oggetto di delega?

“Escludo nella maniera più assoluta che la formazione dei futuri insegnanti possa saltare la fase del confronto parlamentare, si tratta di un tema di capitale importanza per il futuro del Paese. Il mio convincimento sulle lauree abilitanti nasceva dall’esperienza di Scienze della Formazione Primaria, ma sono prontissima a riconoscere la specificità dei percorsi che portano alla docenza nella scuola secondaria. Nelle ultime settimane ho discusso in maniera approfondita con i miei colleghi docenti universitari cosiddetti ‘disciplinaristi’ (Santerini è docente ordinario di Pedagogia generale all’università Cattolica di Milano, ndr) e tutti lamentano l’insufficienza del solo triennio a fornire una base culturale adeguata ai futuri docenti”.

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