Richiedere continui e pressanti chiarimenti sulle assenze di malattia è mobbing

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Il mobbing pur essendo in teoria una fattispecie universale, vede una casistica risicata con pronunciamenti a favore dei lavoratori, e questa casistica è pressoché sussistente nel settore privato, nel pubblico, a partire dalla scuola, è difficile riuscire a trovare riscontri giurisprudenziali positivi in materia.

Eppure il mobbing è sempre lo stesso, ha come fine l’intento persecutorio che può realizzarsi plurimi atti ma tutti caratterizzati dalla medesima finalità illecita.

Fatto

Nel caso di specie, che riguarda un caso nel settore privato, una società proponeva ricorso in cassazione, che veniva respinto dalla Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., (ud. 13-02-2019) 17-04-2019, n. 10725, avverso avverso le sentenze non definitiva (n. 284/2016) e definitiva (n. 387/2016) del Tribunale di Pavia, che aveva accertato il diritto di un lavoratore all’inquadramento nel II livello del CCNL di categoria, l’illegittimità del licenziamento e condannato la società datrice al pagamento, in favore della lavoratrice a titolo risarcitorio per mobbing, della somma di Euro 41.043,00, oltre interessi legali ecc.

Sulla compatibilità tra malattia e ferie

“Secondo consolidati principi di diritto, il lavoratore assente per malattia ha facoltà di domandare la fruizione delle ferie maturate e non godute, allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto, non sussistendo una incompatibilità assoluta tra malattia e ferie, senza che a tale facoltà corrisponda comunque un obbligo del datore di lavoro di accedere alla richiesta, ove ricorrano ragioni organizzative di natura ostativa: in un’ottica di bilanciamento degli interessi contrapposti, nonchè in ossequio alle clausole generali di correttezza e buona fede, è tuttavia necessario che le dedotte ragioni datoriali siano concrete ed effettive (Cass. 29 ottobre 2018, n. 27392); che il lavoratore deve comunque presentare la richiesta di fruizione delle ferie, affinchè il datore di lavoro gli possa concedere di beneficiarne durante il periodo di malattia, valutando il fondamentale interesse del richiedente al mantenimento del posto di lavoro (Cass. 27 febbraio 2003, n. 3028; Cass. 27 ottobre 2014, n. 22753): e la richiesta deve contenere l’indicazione del momento a decorrere dal quale egli intende ottenere la conversione del titolo dell’assenza, che deve precedere la scadenza del periodo di comporto, dato che al momento di detta scadenza il datore di lavoro acquisisce il diritto di recedere ai sensi dell’art. 2110 c.c. (Cass. 11 maggio 2000, n. 6043; Cass. 5 aprile 2017, n. 8834); che in tali casi si deve escludere una incompatibilità assoluta tra ferie e malattia, perchè non sarebbe costituzionalmente corretto precludere il diritto alle ferie in ragione delle condizioni psico-fisiche inidonee al loro pieno godimento (non potendo operare, a causa della probabile perdita del posto di lavoro conseguente al superamento del comporto, il criterio della sospensione delle stesse e del loro spostamento al termine della malattia), posto che si renderebbe altrimenti impossibile l’effettiva fruizione delle ferie; spettando poi al datore di lavoro, cui è generalmente riservato il diritto di scelta del tempo delle ferie, di dimostrare (ove sia stato investito di tale richiesta) di aver tenuto conto, nell’assumere la relativa decisione, del rilevante e fondamentale interesse del lavoratore ad evitare in tal modo la possibile perdita del posto di lavoro per scadenza del periodo di comporto (Cass. 19 novembre 1998, n. 11691; Cass. 3 marzo 2009, n. 5078)”

Richiedere continui e pressanti chiarimenti sulle assenze di malattia è mobbing

La condotta mobizzante nel caso di specie si è esplicata “nei medesimi comportamenti datoriali (di continue e pressanti richieste di chiarimenti alla lavoratrice sulle sue assenze per malattia e sulle cure mediche, di privazione della parte più rilevante delle mansioni al rientro dalla malattia, di richiesta di dimissioni rifiutata dalla medesima) emersi dall’istruzione testimoniale e confermati dalla C.t.u. esperita, condivisi nella valutazione di illiceità da entrambi i giudici di merito, che essi sono stati apprezzati alla stregua di condotte vessatorie integranti mobbing anche dalla Corte territoriale, come evidente dai condivisi arresti giurisprudenziali citati e riconducibili a responsabilità datoriale a norma dell’art. 2087 c.c..”

L’elemento qualificante il mobbing va ricercato nell’intento persecutorio

“che una tale riconducilità è coerente con i consolidati principi di diritto affermati in sede di legittimità per cui, ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, l’elemento qualificante, che deve essere provato da chi assuma di avere subito la condotta vessatoria, va ricercato non nell’illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unifica: sicchè la legittimità dei provvedimenti può rilevare indirettamente perchè, in difetto di elementi probatori di segno contrarlo, sintomatica dell’assenza dell’elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata (Cass. 10 novembre 2017, n. 26684; Cass. 21 maggio 2018, n. 12437); che pertanto la responsabilità per mobbing deve essere, come è, inquadrata nell’ambito applicativo dell’art. 2087 c.c., in quanto ricollegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento (Cass. 29 gennaio 2013, n. 2038; Cass. 5 novembre 2012, n. 18927; Cass. 3 marzo 2016, n. 4222): siccome in violazione dell’obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dal citato art. 2087 c.c. (Cass. 9 settembre 2008, n. 22858; Cass. 25 luglio 2013, n. 18093)”.

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