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Restituire la matematica alla cultura: Giorgio Israel e Primo Levi

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Perché nel nostro Paese fatica ad affermarsi una cultura scientifica diffusa? Perché persiste ancora la dicotomia tra sapere letterario e sapere scientifico nata nella prima metà del secolo scorso per segnarne fatalmente l’intero corso?

I tanti programmi ministeriali per avvicinare i ragazzi alle facoltà scientifiche e i numerosi festival della scienza, della matematica, della fisica servono veramente a qualche cosa? Interrogativi come questi faticano a uscire dalla discussione specialistica se non vengono direttamente sollecitati dalle statistiche che riguardano il calo o il boom di iscritti a questa o a quella facoltà. Gli ultimi dati sulle immatricolazioni segnavano un buon incremento delle facoltà di ambito scientifico e tecnologico, quindi verrebbe da dire che sì, i festival e roba varia a qualcosa forse servono anche, ma non è da trascurare anche l’altra osservazione che si può fare a questo riguardo: in tempi di crisi economica la gente si butta sui percorsi che sembrano offrire più sbocchi occupazionali, senza fare troppa filosofia.

Un vasto movimento d’opinione che si muove intorno a figure carismatiche come quella di Luigi Berlinguer riconduce la disaffezione dei nostri studenti verso i numeri alla riforma Gentile e al crocianesimo, rei di avere svilito pesantemente il ruolo delle scienze nell’offerta formativa dei programmi scolastici, elevando il solo liceo classico a modello supremo per la formazione delle classi dirigenti. Purtroppo non sono tante le voci in grado di fornirci un commento diverso, quella autorevole di Giorgio Israel è venuta a mancare da più di un anno, ma fortunatamente sono ancora in circolazione i volumi in cui il noto storico della scienza forniva una analisi lucida della crisi della cultura scientifica nel nostro Paese, ascrivendo responsabilità non trascurabili anche alla scuola e agli ultimi tentativi di riforma di essa.

In “Chi sono i nemici della scienza” (Torino 2008) egli metteva in collegamento questa crisi, per esempio, con la tendenza promossa dalle teorie didattico-pedagogiche negli ultimi trent’anni a ricondurre tutto a ‘problem-solving’, ostacolando nei bambini l’esercizio alla concettualizzazione perché ogni cosa deve sottomettersi all’esperienza – qui riprendo Israel quasi alla lettera – riducendo tutto a mera abilità pratica, facendoci correre il rischio di trasformare le scuole, e ormai anche le università, da luoghi di formazione e di trasmissione di sapere ad agenzie culturali dove si celebra in continuazione la metodologia dell’autoapprendimento, dove le conoscenze si barattano volentieri in campo di suadenti ‘competenze’ pronte all’uso. Le posizioni del matematico sullo svuotamento che il pedagogismo progressista ha operato sui saperi disciplinari sono ben note e, a nostro avviso, ampiamente condivisibili, ma una delle intuizioni più felici in questo libro è anche l’aver focalizzato la scienza come impresa collettiva legata alla storia delle democrazie liberali degli Stati nazionali, impresa che oggi vive una fase molto critica a causa della scarsa propensione delle persone a informarsi ‘scientificamente’, pur godendo, la scienza e la tecnologia, di uno statuto di assoluto prestigio rispetto agli altri saperi, quello letterario in particolare.

In questo come in molti altri volumi e interventi, Israel ha sostenuto con coerenza e originalità la necessità di un ritorno a una visione umanistica della scienza, validandola con tanti riferimenti dotti e calzanti a figure e a opere che l’hanno inverata, o comunque sostenuta, in momenti storici diversi.

Vorrei qui aggiungerne uno che mi è stato suggerito dall’attualità culturale: Primo Levi e la raccolta intitolata Il sistema periodico, un’opera miracolosa in cui la scienza nutre la vena letteraria in un tutt’uno straordinariamente organico e che comincia a ritagliarsi un posto nel canone letterario del nostro Paese forse proprio solo di questi tempi (ben lungi dall’essere recepito dai manuali scolastici che, ovviamente, continuano a ricordare Levi solo per Se questo è un uomo). In uno dei racconti del volume, lo scrittore torinese scrive a proposito di analisi quantitative su campioni di roccia: “Per la prima volta dopo diciassette anni di carriera scolastica, di aoristi e di guerre del Peloponneso, le cose imparate cominciavano dunque a servirmi. L’analisi quantitativa, così avara di emozioni, greve come il granito, diventava viva, vera, utile, inserita in un’opera seria e concreta. Serviva: era inquadrata in un piano, una tessera di un mosaico. Il metodo analitico che seguivo non era più un dogma libresco, veniva ricollaudato ogni giorno, poteva essere affinato, reso conforme ai nostri scopi, con un gioco sottile di ragione, di prove e di errori. Sbagliare non era più un infortunio vagamente comico, che ti guasta un esame o ti abbassa il voto: sbagliare era come quando si va su una roccia, un misurarsi, un accorgersi, uno scalino in su, che ti rende più valente e più adatto” (da “Nichel”, Il sistema periodico, Einaudi 2017).

Ecco quello che si dovrebbe pazientemente spiegare agli studenti che intendono farsi sedurre dalle materie scientifiche: sapere letterario e sapere scientifico sono sempre stati e continueranno a essere espressioni di un’impresa culturale unitaria, come diceva Israel, perché «il lavoro scientifico è essenzialmente un’attività letteraria e interpretativa» (Pierre Bourdieu). Due facce, insomma, della stessa medaglia che sola in futuro potrà fornirci i paradigmi per mettere ordine nella confusione magmatica del presente.

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