Presunti Maltrattamenti bambini: telecamere sono perdita di fiducia nella scuola. Testimonianze

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Molti sono i commenti dei docenti che giungono sul fenomeno dei PMS: alcuni piccati, altri rassegnati, raramente ironici, piuttosto frustrati.

Tutti possiedono la loro verità, la propria ragion d’essere, la forza del vissuto quotidiano. Obiettivo di questo articolo è dare voce all’amarezza della scuola che si vede spiata, sospettata, intimorita e minacciata nell’assoluto e incomprensibile silenzio delle maestranze. Uno scontro titanico in cui pubblici ufficiali (Autorità Giudiziaria) mettono alla sbarra altri pubblici ufficiali (i docenti nell’esercizio delle loro funzioni) spiandoli dal “buco della serratura” con telecamere nascoste come si conviene nei sistemi totalitari.

C’è chi arriva amaramente a concludere che… “Alla fine saremo grati alle Forze dell’Ordine per essere riusciti a smantellare la cupola di quella temibile organizzazione malavitosa chiamata scuola”.

Chi invece afferma… “Dio ci scampi dalle perizie psicologiche singole, che presumono chissà quali turbe psicologiche aventi causa esclusiva nella scuola, e ci salvi dagli incidenti probatori con bimbi preparati dai genitori per rispondere ad arte, magari anche molti anni dopo lo svolgimento dei fatti”… e via discorrendo.

C’è chi racconta compiutamente la propria storia, consapevole dello scampato pericolo, una volta raggiunta l’agognata pensione anzitempo per motivi di salute.

Se 20 anni fa nella mia scuola di periferia ci fossero state le telecamere, io e la mia collega saremmo state messe sicuramente AL GABBIO (in carcere) come si dice a Roma. Non tanto per le frasi quanto per i gesti e le attività che svolgevamo, credendo fermamente già allora in una didattica integrata in cui ci fosse spazio anche per il corpo, per le emozioni. Il contatto corporeo, l’esplorazione di una pluralità di linguaggi, l’affettività come espressione di sé, erano punti fermi della nostra programmazione volta all’INCLUSIONE, si direbbe oggi, di ciascun bambino con le proprie capacità e potenzialità. Chi mi avesse visto SOLO in un momento di contenimento fisico della rabbia di un bambino con difficolta di gestione delle emozioni, SENZA VEDERE IL PRIMA E IL DOPO, il dialogo guidato per la riflessione su di sé, la ricerca di strategie comportamentali alternative accettabili, la discussione in classe, mi avrebbe messo in cella, gettando la chiave.

L’uso delle telecamere è pericoloso perché potrebbe incidere negativamente sulla relazione di fiducia tra docente e famiglia assolutamente necessaria per la costruzione di un sano ed efficace rapporto di insegnamento-apprendimento”.

C’è anche la docente di filosofia che, per l’occasione, fa bella mostra del suo sapere per ricordarci la funzione insostituibile del “mondo incantato” dei bimbi in cui le maestre si trovano a operare.

In un celebre testo intitolato “Il mondo Incantato” di Bruno Bettelheim si evidenzia come per insegnare al bambino a destreggiarsi nella vita, conoscere se stesso e il mondo, acquisire criteri morali capaci di discriminare il bene e il male e perfino sperimentare emozioni, la tradizione pedagogica ricorre da secoli e secoli alle fiabe… Ecco che si racconta ai bambini di lupi che mangiano le nonne, di ragazzi che una volta erano burattini di legno, di principesse rinchiuse quasi a vita in un castello, di orchi, di matrigne spietatissime che si accaniscono nei riguardi di povere fanciulle indifese, non certo perché narratore e chi racconta siano affetti da sataniche perversioni o in preda a turbe compulsive di tipo sadico, ma per dare ordine e coerenza alla dimensione interiore, suscitare empatia, fornire un’educazione morale, catturando interesse e attenzione del bambino… La parola è enfatica e favolosa perché ciò è più funzionale ad una sua memorabilità… Ricorrentemente proverbi dialettali, motti, detti popolari utilizzano espressioni apparentemente minacciose, che tali non sono, perché piegano l’enfasi a funzioni educativo-riflessive. Per citare solo un esempio, nella cultura calabrese da cui io provengo è l’espressione “ti fazzu … ti fazzu a pezzettini fringuli fringuli accussì!” (“non devi farlo altrimenti ti faccio  ti faccio a pezzettini piccoli piccoli così!), ma lo scopo non è evocare un corpo obbrobriosamente tagliato a fette, sminuzzato e fritto in padella, ma far riflettere su un comportamento sbagliato…”.

C’è poi chi ammette di aver le idee sempre più confuse a causa degli ultimi eventi, nonostante abbia alle spalle oramai tre lustri d’insegnamento. Negli anni ha imparato anche a “urlare e tirare le orecchie” ma giura di essersene pentita anche se ora dice di non saper più come comportarsi coi bimbi difficili a causa dello “spauracchio telecamere”.

Ho cresciuto e seguito tutti i mei bimbi fino all’ultimo anno di scuola dell’infanzia ma alla gratificazione si aggiungeva lo stress di una sezione composta da 23 bambini con bambino bisognoso di sostegno (gravi deficit) senza alcun aiuto, nemmeno un collaboratore scolastico. Alcuni di loro necessitavano ancora del cambio di pannolino, gli altri di esser lavati dopo i bisogni. Come facevo? Chiedevo alla collega della sezione accanto di mettersi sulla porta e poter vigilare così la mia sezione e la sua per un totale di circa 40 bambini, più volte in una giornata. Qui ho appreso l’arte dell’urlo, unico modo in cui alcuni bambini sembravano riuscire a prestarmi attenzione. Ho appreso anche che a quei tre bambini spericolati e assolutamente non curanti delle regole, a volte, una tiratina di orecchie li faceva desistere. (a posteriori mi sono pentita amaramente di aver utilizzato questa brutta scorciatoia. Soprattutto dopo aver visto quante docenti finiscono in manette per azioni simili… Mi sono sentita un mostro, quando per me e le altre colleghe era un modo educativo; forse derivato dal fatto che le maestre anni ‘80 usavano questi e altri e “metodi” poco professionali. La mia ad esempio ci dava le bacchettate di ferro sulle mani, quella di motoria ci dava il pistillo gigante in testa. L’idea di poter star male con le colleghe o di non riuscir più a gestire una classe numerosa mi spaventa” molto. E mi spaventa anche l’idea di essere sorvegliata speciale grazie alle telecamere. Già mi vedo ad allacciare una scarpa ad una bambina e nel frattempo un altro bambino cade battendo la testa sul banco. Già mi vedo rispondere al telefono alla segreteria e perdere di vista Tizio che taglia con le forbici I capelli a Caio. Per non parlare di quante volte dico al giorno “amore mio” a tutti con i bambini che nel frattempo si sculacciano a vicenda, si schizzano l’acqua o srotolano metri di carta igienica… Mi sono vista mentre afferro due “fuggitivi” alla martingala e gli esclamo “ecco, a voi servirebbe un guinzaglio per tenervi fermi” (sconforto, tristezza, incapace, “non ce la faccio, non sono brava”)…

C’è poi chi affronta la questione più praticamente, esaminando e illustrando le peculiarità del rapporto asimmetrico docente-alunno che necessariamente contempla fisicità e parafamiliarità.

Nella scuola dell’infanzia vi è una “fisicità” che quasi non esiste nei successivi gradi scolastici. La comunicazione con i bambini piccoli più che di parole è fatta di sguardi, di sorrisi, di posture, di abbracci, di baci, di pacchette. Non ci può essere distacco o formalità con i bambini. Nella scuola dell’infanzia, che non a caso fino a qualche tempo fa si chiamava “scuola materna”, si riproducono delle situazioni tipicamente familiari, materne/paterne (senza giungere ovviamente ai maltrattamenti che talvolta avvengono davvero in famiglia!). Ma se ci sono sospetti di esagerazioni, i genitori a chi si devono rivolgere? Il primo interlocutore non può che essere il dirigente scolastico, che avvierà discretamente le prime indagini, nel rispetto della privacy di tutti, ma tenendo contatti con i genitori che vogliono risposte. Sperando però che il dirigente stesso non si rivolga frettolosamente egli stesso ai carabinieri. Docenti e personale scolastico sono stati qualche volta i peggiori accusatori, e pochissime le manifestazioni di solidarietà.

Ci vogliono quindi addetti ai lavori preparati e saggi, ma anche un sistema solido di difesa per gli insegnanti che dovessero trovarsi in questo tritacarne. Costoro Si devono poter difendere, affiancati da professionisti altrettanto esperti: sia in caso di procedimento disciplinare interno, non meno doloroso, sia in caso di denuncia penale.

Forse sono gli avvocati e i giudici che dovrebbero rivolgersi agli addetti ai lavori e chiedere consulenze e perizie. Una cosa è certa: una sgridata, una sculacciata simulata, uno strattonamento necessario per impedire fatti che potrebbero essere pericolosi, non possono essere considerati reati. Se la bellezza è “negli occhi di chi guarda”, lo è anche la malizia e la volontà di colpire. Che senso ha affidare all’occhio elettronico dei rapporti umani e, per giunta, educativi? Sembra un arrendersi, un deporre le armi, affidandosi a qualcosa di solo apparentemente “oggettivo” perché decontestualizzato e drammatizzato.

Si potrebbe andare avanti all’infinito per documentare lo sconcerto dei docenti determinato dalla perdita di fiducia nella scuola. E non potrebbe essere altrimenti, considerato che l’Autorità Giudiziaria ricorre a metodi d’indagine che violano il diritto alla riservatezza tutelato dallo Statuto dei Lavoratori, quindi si avvale di inquirenti non addetti ai lavori che utilizzano videoclip decontestualizzate e poi drammatizzate nella loro trascrizione. Telecamere nascoste, per giunta utilizzate in una “pesca a strascico che non dovrebbe essere mai consentita se non per reati gravi come associazione mafiosa, terroristica, delinquenziale”, come afferma l’autorevole magistrato Gherardo Colombo. Eppure, la soluzione è semplice: restituire le sue prerogative al dirigente scolastico, le cui competenze medico-legali per eccellenza riguardano la tutela della salute dei docenti e dell’incolumità degli alunni. Solo così la scuola tornerà ad essere considerato quale ambiente più sicuro per la piccola utenza che, invero, come ci racconta la cronaca, trova i veri pericoli proprio all’interno delle mura domestiche anziché nelle aule.

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