Pedagogia nelle scuole? Bene o male, finalmente se ne parla

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In queste ultime settimane finalmente si parla di pedagogia, bene o male, ma se ne parla.

Sarà l’approvazione della legge Iori, sarà che da più parti si levano preoccupazioni circa l’aumento delle diagnosi tra i banchi di scuola, sarà che si profila il rischio di bur nout dei docenti e addirittura di patologie psichiatriche che li colpiscono, sarà che la cronaca esalta fatti di aggressioni tra alunni e docenti, docenti e alunni e genitori, ma finalmente se ne parla.

Qualcuno chiede “dove sono i pedagogisti?”, altri sostengono l’inefficacia degli attuali modelli pedagogici, taluni rimproverano i pedagogisti di non sapere offrire risposte adeguate ai problemi e di non occuparsi nello specifico di individuare metodologie didattiche proficue.

I social implodono di polemiche (qualche volta anche di insulti), le parole e i pensieri vengono interpretati secondo i propri schemi cognitivi e intellettuali generando spesso incomprensioni. In questo scenario la questione DSA e Bes sembra dividere la comunità pedagogica.

Mi è stato chiesto di esprimere un parere nell’ambito del dibattito in merito alla questione, anche se mi sono già espressa numerose volte e chi mi legge sa bene che da tempo imploro il ritorno alla Pedagogia, in primis nella scuola, il luogo dell’I CARE, il luogo dell’imparare, della creatività, della gioia, della crescita, del dialogo, dell’incontro e dell’ascolto autentico. Nei miei interventi faccio parlare soprattutto i miei quarant’anni di docenza, dalle scuole primarie all’Università, nonché gli studi e le ricerche che ho condotto.

Nel mio ultimo libroi ho intitolato il capitolo 2 “La grande assente:la Pedagogia” riportando frequentemente il pensiero di Remo Fornaca, grande pedagogista e maestro di molti di noi. Per esempio già negli anni ‘70/’80, quando barlumi e illuminazioni pedagogiche c’erano, nonostante tutto, egli scrisse: “La Pedagogia è stata ed è, molto spesso, una terra di nessuno, soggetta a presenze e a scorrerie di diverso tipo, con risultati talora scoraggianti”. Dunque, diciamoci la verità: perché tanti rimproveri e accuse quando oggi nessuno la chiede, o perché non la conosce, o perché nelle scuole, tranne rari casi di sensibilizzazione interna (quando opera un pedagogista sotto mentite spoglie), il pedagogista non c’è? Si fa ricorso ora agli psicologi, ora ai servizi di neuropsichiatria, mai al pedagogista. Eppure è lapalissiano che le forme di disagio dei docenti e l’eventuale rischio di burnout hanno origine dalla solitudine in cui si opera nelle scuole; che il disagio degli studenti nasce dalla mancanza di sostegno e accompagnamento al ruolo genitoriale e alle famiglie che cambiano. Scuola e famiglia, le agenzie educativo- formative per eccellenza, sono sole e disorientate, a fronte di una nuova complessità nella quale bisogna imparare a vivere, come spesso ci ricorda Edgar Morin. Dunque, prima di parlare di disagio conclamato che si tramuta in men che non si dica in sindrome, momento in cui opera lo psicologo, bisogna promuovere agio! un compito pedagogico. La finalità della pedagogia, infatti, è l’empowerment.

La questione dei disturbi specifici di apprendimento e dei Bes non si può affrontare con quelli che stanno diventando i consueti canoni dell’attuale politica purtroppo; sento parlare di “negazionisti” e “sostenitori”, espressioni sulle quali non concordo assolutamente ma che sono segnali da cogliere.

Non possiamo negare che c’è confusione tra addetti e non addetti ai lavori, che non v’è uniformità. Basti indagare su come viene affrontata e letta la questione DSA/Bes in Europa: alcuni Paesi la riconoscono come una neurodiversità, altri come una disabilità, altri ancora non ne parlano neppure, altri investono in promozione e attenzione alle metodologie didattiche.

Non si vuole negare la buona volontà della legge 170/2010; come ha sostenuto bene qualcuno, nel 2010 essa ha rappresentato una necessità e un monito per il sistema scolastico, una garanzia di tutela per quegli alunni che la scuola non comprende, non coltiva, che esclude. Ma che male c’è nell’individuare incongruenze o ambiguità? La ricerca può continuare nell’ottica di un cambiamento migliorativo. Invito a rileggere per esempio un documento interessante curato da Cornoldi e Tressoldi, sulle ambiguità che sottostanno agli attuali criteri diagnostici di DSA (https://www.airipa.it/wp-content/uploads/2016/02/LLGDiagnosi_Cornoldi14.pdf), con precisi riferimenti all’ICD 10, al DSM 5 e alle indicazioni della Consensus Conference.

Parliamoci, esprimiamo riflessioni, ragioniamo insieme, accogliamo il dubbio e le domande: sono le basi di un dibattito democratico e produttivo per la ricerca scientifica.

Per esempio è curioso che diversi tra i sostenitori dei DSA parlino di strategie didattiche per “prevenire” la disgrafia. Ma si può prevenire se esiste a livello neurobiologico una diversità? E poi, visto che si parla di “caratteristiche neurobiologiche, perché dislessia, disgrafia, discalculia, disortografia sono definiti disturbi? Le parole hanno il loro peso!

Inoltre, anche l’Ordine Nazionale degli psicologi sostiene che “essendo i DSA disturbi di origine neurobiologica, parlare di prevenzione non è corretto e può costituire una forzatura” (http://www.psy.it/wp-content/uploads/2016/03/I-DSA-e-gli-altri-BES1.pdf) Nello stesso documento si segnala “Un dato particolarmente preoccupante per tutta la categoria di clinici, psicologi e medici, è la presenza di diagnosi di DSA nell’ambito della scuola dell’infanzia (0,03% sul totale). Infatti, come raccomanda la CC-ISS-2011 alla risposta A del quesito 5A, «non appare opportuno anticipare la diagnosi a prima della fine della classe seconda della scuola primaria»”. Per quale motivo si continuano a somministrare test in età prescolare?

Vi è ancora accordo tra gli studiosi nel ritenere che il metodo globale sia stato il vero responsabile della nascita dei Disturbi Specifici di Apprendimento (anche le “Linee Guida” del MIUR -2011- invitano a non utilizzare il metodo globale-Tamara Zappaterra, Università degli Studi di Firenze). Ma nello stesso tempo si lascia, giustamente, autonomia didattica ai docenti. Siamo certi che ogni docente sia documentato in merito?

Nei corsi di formazione incontro molti docenti ancora confusi sulla differenza tra le difficoltà di apprendimento, superabilissime con adeguate metodologie didattiche, e i disturbi che si vogliono diagnosticare.

Nella home page di una scuola del centro Italia trovo scritto “Con il termine DSA ci si riferisce, prima di tutto, ai disturbi evolutivi specifici di apprendimento ed essi sono quattro […]La principale caratteristica di questa categoria nosografica è quella della specificità ossia è una disabilità che riguarda uno specifico dominio, in modo circoscritto”.

In un altro sito leggo: “Screening per la prevenzione dei DSA […]”. Allora possiamo prevenire i DSA? Sono le domande che insegnanti e genitori si pongono.

C’è confusione, oltremodo alimentata dai social e da Internet “una gigantesca accozzaglia di saperi, dicerie, credenze […]” (Morin) e quanto di più letto dalla popolazione.

Ritengo dunque doveroso che la comunità scientifica riaffronti la questione con un dialogo sereno e armonioso, riconoscendo peraltro che per quanto utili e vantaggiosi, i social non rappresentano la sede opportuna per un dibattito scientifico o per esprimere i risultati della ricerca. Si apre la finestra al riduzionismo del sapere, che sapere non è, ai dogmi, spesso ai fanatismi ideologici, alle invettive gratuite dei più.

Edgar Morin scrive: “Incertezza e dubbio sono legati, si richiamano a vicenda […] Dobbiamo cambiare il modo di concepire la conoscenza scientifica […]. L’ideale determinista oggi è svuotato della sua sostanza. L’incertezza, riallacciandosi alle virtù dello scetticismo hegeliano, spezza le nostre certezze artificiali e ci mostra i rischi del presente, i limiti del sapere e la parte di mistero dell’universo”. Morin ci induce inoltre a riflettere sulla differenza tra teoria e dottrina e precisa che le teorie sono “biodegradabili” confutabili da elementi di conoscenza nuovi.

Secondo il mio parere abbiamo tre ordini di vittime: i docenti, i genitori, gli alunni, e tutte e tre oggi si fanno la guerra. Come a dire, per usare un eufemismo, “una guerra tra poveri”. Ho avuto spesso occasione di sostenere che il nostro è il tempo della delega educativa. Le critiche e le invettive che imperversano sui social, rivolti alla scuola, ai docenti impreparati e poco aggiornati, non sono che gli effetti. Dove sono le cause di tutto?

Personalmente, sostengo da tempo che se la pedagogia non entra nelle scuole si va incontro a un inevitabile processo di medicalizzazione della scuola, che finora ha colpito gli alunni, ora anche i docenti che sembrano affetti da patologie psichiatriche (ben il 58%, https://www.avvenire.it/attualita/pagine/burnout-male-che-colpisce-il-58-degli-insegnanti).

Intanto fa pensare e fa male sapere che nel mondo della scuola sarà attivato “il necessario servizio di psicologia scolastica” (decreto Lorenzin del 22 dicembre 2017, che riconosce lo psicologo come professione sanitaria). Allora la Sanità entra nella scuola? Ancora una volta si punta sul dis-agio che rischia di tramutarsi in sindrome, invece di dare spazio alla ricerca pedagogica, all’intervento educativo riconosciuto per legge. Una ricerca necessaria a dare respiro ai docenti, a formare sul tema della valutazione degli alunni/e sempre più di carattere sanzionatorio che formativo, a individuare e a sperimentare metodologie didattiche per garantire il diritto all’istruzione di ciascuno, nel rispetto delle diversità di ognuno, a non deprimere il livello culturale delle nostre giovani generazioni (le facilitazioni vanno assumendo carattere di riduzione), cittadini – ripeto- di oggi e di domani. Di un piano personalizzato ne hanno bisogno tutti i bambini , ha sostenuto Daniela Lucangeli, che ricorda quanto siano importanti le emozioni nel percorso apprenditivo.

Non si possono né si devono colpevolizzare i pedagogisti, come leggo in questi giorni, se questi non sono previsti nelle scuole dalla legge (a meno che la legge Iori non venga realmente applicata, art. 4), nè i docenti che non sanno insegnare, nè i genitori che non sanno educare in famiglia.

Occorre rendersi consapevoli che siamo di fronte a una crisi dell’umanità che è anche crisi dell’educazione. Per questo occorre pedagogia, ricordando che il pedagogista è l’esperto dei processi educativi e formativi.

L’esperienza di ben 25 anni di insegnamento nella scuola primaria, mi ha confermato che la relazione educativa è la chiave: attraverso il sorriso, l’incoraggiamento, la creatività, lo sguardo, il tempo di imparare, l’attenzione alle emozioni, credere in ciascun bambino, si giunge a “tirare fuori” il meglio di ciascuno. La collegialità, la puntuale programmazione interdisciplinare, la progettualità in team, l’aggiornamento e la formazione continui, gli studi, la motivazione, sono ingredienti fondamentali. Nel mio caso, l’associazionismo pedagogico, la condivisione di intenti e quant’altro, la conoscenza di ambiti extrascolastici, mi hanno permesso di com-prendere e di attuare una didattica mai data una volta per tutte. Ho imparato e continuo a imparare e… lo faccio con un sorriso. Ora, con gli studenti più grandi, ascolto e tento come posso di lasciare un messaggio: TU puoi, perché all’inizio è relazione (M. Buber).

Quindi non mi si chieda se sono negazionista o sostenitrice dei DSA. Io sono per la ricerca e per il ritorno alla pedagogia buona di Milani, Montessori, Rodari, Lodi, Dolci e tanti altri che con l’eros del direttore d’orchestra ( Morin) hanno scelto una rivoluzione pedagogica del pensiero, che con pacatezza e armonia, hanno avuto a cuore i bambini/e, la loro cultura e la loro formazione. A noi di questo tempo, tocca insegnare anche a pensare per liberarsi dal tecnocratismo dominante (Morin). Per questo occorre soprattutto una rivoluzione di sistema e…posso dirlo? Non accetto più di etichettare e di diagnosticare i bambini, la parte più autentica del genere umano. Terapie, diagnosi, sindromi, patologia, DSM, neuro, psico… le parole hanno un peso nell’immaginario collettivo. Torniamo a fare scuola! Una bella scuola buona per ritrovare la bellezza e la preziosità di “quell’ora di lezione” (Recalcati) che può restare per sempre.

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