No a didattica per competenze, la petizione raggiunge 10mila firme. Adesso convegni in tutta Italia

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L’Appello per la scuola pubblica ha oltrepassato le 10mila firme, che cosa succederà adesso?

In attesa degli incontri del 9 febbraio a Padova con i prof. De Nicolao e Conte, del 19 a Milano con il prof. Lucio Russo, del 22 a Roma in un convegno dedicato all’Autonomia Scolastica (altre date in programma anche a marzo a Venezia, con Salvatore Settis, e di nuovo a Milano e a Roma), Giovanni Carosotti traccia con noi un primo bilancio dell’iniziativa e chiarisce alcuni importanti nodi tematici.

Carosotti, superato il traguardo delle 10mila firme, avete la speranza di una risposta ufficiale, dell’apertura di un confronto col Miur?

“Si tratta di un risultato che nessuno di noi, all’inizio, aveva immaginato, e che ci ha riempito di soddisfazione. Soprattutto perché giunto a seguito della nostra scelta di avviare una campagna “porta a porta”, senza fare riferimento a piattaforme specializzate. Ciò vuol dire che abbiamo raggiunto solo parzialmente altri interlocutori potenzialmente favorevoli all’Appello. Abbiamo confidato però sul passa parola, su portali che hanno ospitato l’Appello, nonché su interviste come queste.

Ciò che particolarmente ci ha soddisfatti del successo finora ottenuto (ma la raccolta di firme va avanti e quindi ci proponiamo di aggiungere ulteriori consensi) è la conferma di una nostra ipotesi di partenza. Tra buona parte dei docenti italiani, nonché nel mondo universitario e più generalmente della cultura, vi è piena consapevolezza dell’estrema debolezza teorica dei fondamenti alla base della riforma della scuola (i concetti di competenza, di innovazione didattica, di valutazione standardizzata e\o compito autentico, ecc.), ma l’ostinazione con cui i documenti ministeriali hanno continuato a imporli, con in più la pretesa di un loro presunto fondamento scientifico che in realtà non esiste, aveva ormai creato disorientamento, rassegnazione e sfiducia, specie tra i nostri colleghi. Era necessario diffondere una presa di posizione che unisse queste criticità disperse, che riuscisse a creare un fronte comune, mandando un chiaro messaggio agli esperti ministeriali, che facesse loro capire come la retorica autoreferenziale che usano non trae in inganno chi da sempre lavora in un contesto formativo.

Cosa succederà adesso, per lo più in questa fase delicata della politica nazionale, è difficile dirlo. Non abbiamo ricevuto per ora alcun segnale dagli interlocutori che abbiamo chiamato in causa; i documenti che intendono rilanciare il progetto di riforma (dal nuovo Piano nazionale Scuola Digitale ai Sillabi, che andranno a interessare singolarmente tutte le discipline del curricolo) hanno continuato a imperversare, utilizzando sempre l’identica neolingua così estranea al serio dibattito intellettuale. Ma siamo certi che il segnale è arrivato, che il nostro documento – anche in virtù degli ampi e prestigiosi consensi che ha ottenuto – ha suscitato una reazione, e costringerà, se si volesse andare oltre nella radicalizzazione delle riforme, le autorità ministeriali ad avanzare giustificazioni più convincenti di quelle presentate fino a oggi, nonché a doversi confrontare finalmente con interlocutori critici.

In uno degli ultimi colloqui che abbiamo avuto, lei si diceva molto colpito per le critiche e gli attacchi che la vostra iniziativa ha ricevuto. Quali, in particolare, le sono sembrati eccessivamente pervicaci?

“Nella fase in cui ci siamo impegnati a tempo pieno nella diffusione dell’Appello si è aperto un ampio confronto, anche nella corrispondenza privata, con i nostri interlocutori. Mentirei se dicessi che abbiamo avuto solo risposte entusiaste: in molti casi vi sono state critiche costruttive e scambi di opinione fondate sul reciproco rispetto; e, poiché noi non riteniamo di avere il monopolio della ragione, teniamo sicuramente presenti le osservazioni di criticità che ci vengono rivolte. Nel contesto però di un dibattito rispettoso, alla pari, dove non compaia quella presunzione e sicumera propria delle argomentazioni pseudoscientifiche, che vorrebbero rappresentare un punto di vista oggettivo in realtà nient’affatto condiviso. Questa è la ragione per cui l’Appello chiede una moratoria su quelle attività obbligatorie o sui futuri provvedimento che potrebbero rendere la svolta riformatrice irreversibile; e la ripresa di una discussione realmente ampia e partecipata.

Il fatto che l’Appello, non appena ha mostrato la sua capacità di essere condiviso, abbia provocato reazioni critiche, talvolta anche molto dure, da una parte ci ha fatto capire che l’operazione stava comunque sollevando il dibattito che ci auguravamo; dall’altra la forza delle nostre ragioni, vista la debolezza di alcune di queste prese di posizione, dove si è fatto riferimento alla abusata categoria di «conservatorismo» senza spiegarla, oppure al rancore dei docenti di area umanistica che emergerebbe dal testo, e così via. Sono obiezioni queste che è facile rimandare al mittente, trappole che abbiamo voluto con consapevolezza evitare, e che pure ci sono state rivolte, spesso perché le prese di posizione retorica si riproducono da sé senza particolare riflessione. Nel nostro gruppo di docenti proponenti, metà insegnano matematica e fisica, solo due storia e filosofia; e abbiamo avuto cura di cercare la condivisione di matematici, fisici, scienziati, oltre che ovviamente di storici, letterati, filosofi, esperti di diritto e di scienza dell’educazione. Proprio per mostrare che questa presunta divisione tra intellettuali letterati e ricercatori di area scientifica è artificiale e inesistente. Ciò che è emerso è invece un’insofferenza diffusa, in particolare proprio da parte di chi, dedicandosi alla ricerca e alla didattica alla cultura scientifica, si sente chiamato in causa quando l’idea di «metodo scientifico» e di «validazione scientifica» viene così superficialmente utilizzata dai sostenitori della “didattica innovativa”.

A mio parere, comunque, l’accusa più paradossale che ci è stata rivolta è quella di avere separato artificialmente la nozione di “competenza” da quella di “conoscenza”, una critica debba invece essere rivolta proprio a chi in questi venti anni ha sostenuto la didattica per competenze. Già vent’anni fa, la perplessità sulla teoria delle competenze non riguardava tanto la legittimità del concetto (io personalmente preferirei parlare di obiettivi formativi, che si aggiungono a quelli disciplinari e che derivano da questi ultimi), quanto il ridurlo a unico vero obiettivo, in genere pertinente alla sfera pratica, che riduce la conoscenza necessaria a conseguirlo a puro strumento. Per cui il contenuto, la conoscenza, può essere frammentata, ridotta, scelta opportunisticamente e decontestualizzata sia dal punto di vista storico sia metodologico dal suo ambito di appartenenza; meno male che, con la consueta chiarezza, in un articolo di dicembre, apparso su La Stampa di Torino, il presidente della Fondazione Agnelli ha affermato il concetto dal suo punto di vista, dando quindi fondamento alle nostre osservazioni critiche; ha detto infatti che – sia pur paradossalmente – gli alunni in un anno scolastico potrebbero essere impegnati anche su un solo argomento, perché questo già basterebbe a far acquisire il metodo che loro serve. Una perfetta interpretazione, ritengo, di ciò che intende perseguire la didattica per competenze. Chiunque può giudicare allora chi veramente separa in modo artificioso le conoscenze dalle competenze.

Anche i mezzi di informazione generalisti, normalmente abbastanza attenti a quello che succede nel mondo della scuola, non vi hanno forse lasciato lo spazio che vi aspettavate. Con le testate specializzate è andata un po’ meglio?

“In un primo tempo, quando lAppello si è diffuso in modo «virale» in rete (così è stato felicemente scritto su la Repubblica) alcuni ci hanno cercati, per informare sul nostro punto di vista. Articoli sono apparsi su Il fatto quotidiano, Micromega, Roars, i blog La Letteratura e Noi, Gli Stati Generali e diversi portali frequentati dai docenti. Dopo questa fase non nascondiamo che abbiamo incontrato difficoltà a farci ascoltare; abbiamo contattato testate, da quotidiani a emittenti radiofoniche, non ottenendo risposte. Sicuramente insisteremo. Non so spiegare le ragioni di questo silenzio, vista l’importanza del tema, e francamente vorrei evitare ipotesi censorie che non avrei elementi per confermare. Sperò però, anche alla luce di questa intervista, che chi finora ha sottovalutato il nostro documento possa prendere in considerazione l’idea di dargli adeguato spazio, sia pure in un contesto di civile confronto critico, in modo che l’opinione pubblica possa farsene un’idea. Per quanto riguarda le riviste specializzate, a eccezione di Orizzonte Scuola, dopo una prima azione informativa non c’è stata un’ulteriore fase di approfondimento. Anche se, su alcuni portali scolastici, il dibattito ha proseguito coinvolgendo quanto meno i nostri colleghi.

Noi abbiamo deciso, in questa fase, di diffondere l’Appello attraverso incontri pubblici: da una parte siamo stati invitati a parlare del nostro documento da associazioni di categoria interessate ad approfondirlo; dall’altra ci siamo noi stessi attivati per creare situazioni pubbliche di confronto. Il 9 se ne parlerà a Padova con i prof. De Nicolao e Conte, il 19 a Milano con il prof. Lucio Russo, il 22 a Roma in un convegno dedicato all’Autonomia Scolastica, il 1° marzo a Venezia, con Salvatore Settis, il 9 marzo ancora a Milano in un convegno dedicato all’Alternanza Scuola Lavoro, il 16 marzo ancora a Roma all’interno di un’altra giornata di dibattito ancora in fase di organizzazione. Non staremo sicuramente fermi; e speriamo che a questi eventi la stampa e gli organi d’informazione si interessino”.

LAppello mette in discussione e decostruisce alcuni aspetti fondanti dell’impalcatura ideologica che ha creato le premesse e che sta sostenendo il mutamento della scuola italiana, ma moltissimi docenti e intellettuali, anche nomi di primo piano della scena culturale, sono dalla vostra parte. Quali adesioni vi hanno fatto più piacere e quale è il merito che più vi riconoscono?

“Tutte le firme ci hanno fatto piacere, in virtù della loro pluralità. C’era in noi la speranza di riunire attorno a temi culturali e politici, in un documento unitario, gli intellettuali critici nei confronti delle politiche riformatrici degli ultimi due decenni. Però l’aspetto più importante è la pluralità: non c’è un ambito disciplinare privilegiato, ma i mondi della cultura umanistica e scientifica sono egualmente rappresentati; tutti gli ordini di scuola, dalla primaria all’università, così come tutte le realtà territoriali italiane, oltre a tanti nomi stranieri. Il merito che più ci riconoscono penso sia quello di avere finalmente esplicitato pubblicamente quel sentimento di consapevolezza del carattere ideologico e strumentale dell’apparato concettuale ormai utilizzato dal Miur e dai suoi esperti, l’insofferenza per la violenza linguistica con cui nei loro documenti è umiliata la pratica dell’istruzione, l’assoluta estraneità di questi esperti alla concreta vita scolastica, e alle vere problematiche degli studenti che i docenti si trovano quotidianamente ad affrontare.

Qual è stata la risposta degli studenti e delle varie organizzazioni che li rappresentano? Avete notato una autonomia di giudizio in loro?

“Qualche studente, per lo più universitario, ha firmato. Abbiamo però voluto evitare di rivolgerci a loro in modo strumentale, come in altri casi invece a nostro parere viene realizzato. Per esempio, quando si invitano i “nativi digitali” a ribellarsi al conformismo educativo imperante (immagino quello fondato sulle discipline e sui libri di testo), oppure quando si fa leva di riuscire furbamente a convincerli mostrando loro come, nella nuova scuola, ci si divertirebbe di più e si studierebbe con meno fatica. Soprattutto perché tutte le procedure didattiche farebbero riferimento ai linguaggi e alle tecnologie già proprie del vissuto degli studenti. E’ un’operazione destinata a essere sconfitta e denuncia una scarsa conoscenza delle dinamiche comunicative che si realizzano a scuola. Dove il coinvolgimento e l’impegnarsi in un lavoro comune di conoscenza dipende da capacità relazionali e comunicative irriducibili a una pura tecnica.

Ho notato però, non so se come reazione al successo del nostro Appello, che molte prese di posizione sulla scuola in tempi recenti, in particolare da parte della Fondazione Agnelli, tendono a rivolgersi direttamente ai genitori, a partire dalla preoccupazione legittima di quale sarà il futuro lavorativo dei loro figli. E auspicando di sfrondare la scuola da tutte le pratiche ancora diffuse che rallentano questa convergenza tra mondo della scuola e mondo del lavoro, come per esempio il tema letterario.

Ebbene, io sono convinto da anni che una delle azioni che noi docenti dobbiamo perseguire con continuità è proprio il rapporto con la componente studenti e genitori, attraverso magari assemblee appositamente organizzate nei diversi istituti. Mostrare loro, in particolare, come, al di là di tutta la retorica sull’informatica e l’inglese, il nuovo tipo auspicato di scuola, rischia di ridurre le capacità competitive dei loro figli nel contesto globale, e mostrare loro come il problema del successo formativo è ben più complesso della relazione tra frequentazione di un istituto e immediato posto di lavoro alla fine degli studi.

Con gli studenti il rapporto è più delicato. Associazioni degli studenti sono molto interessate a comprendere la logica di trasformazione cui è interessata la scuola e spesso chiedono che il tema venga trattato nelle loro assemblee. E’ bene a mio parere mostrare loro nel modo più oggettivo le trasformazioni in atto, valutando insieme come cambierebbe il modo di lavorare se si utilizzassero nuove metodologie, che cosa perderebbero ed, eventualmente, guadagnerebbero. Ma io credo soprattutto nel lavoro svolto da noi docenti in classe ogni giorno: se la svalutazione del nostro lavoro incontra ancora resistenza e non è stata ancora portata a termine, è per il credito che i docenti guadagnano presso le famiglie con il loro lavoro quotidiano. Sta nella loro capacità di mostrare come il lavoro svolto trasformi progressivamente l’identità sia dell’insegnate sia dell’alunno. Come anche gli argomenti apparentemente più lontani dalla dimensione quotidiana, mutino la percezione delle cose e del mondo, suscitando quell’interesse critico per la realtà fuori di noi modo che le procedure formalizzanti tenderebbero sempre di più a mortificare.

Convegno Roma 22 febbraio. Per la Scuola della Repubblica

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