Nell’impiego pubblico contrattualizzato l’azione disciplinare è caratterizzata dalla obbligatorietà

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La Cassazione Sezione Lavoro con la Sentenza n. 8722 del 4/4/2017 accoglie il ricorso di una Azienda ULSS che aveva provveduto a licenziare il suo direttore amministrativo poichè non aveva provveduto alla rimozione di una causa di incompatibilità, come richiestogli dalla Azienda.

Ciò ha comportato una grave lesione del vincolo fiduciario come sussistente tra le parti. La Cassazione con la Sentenza che ora segue evidenzia la differenza che sussiste tra l’azione disciplinare nel settore privato e quello pubblico, rimarcando il carattere dell’obbligatorietà dell’azione disciplinare nel PI, dunque anche nella scuola, visto che si tratta di norme che trovano applicazione anche nel settore scolastico.

Osserva al riguardo il Collegio che “il potere disciplinare del datore di lavoro pubblico, sebbene fondato dopo la contrattualizzazione del rapporto di impiego sul contratto e, quindi, sottratto alle regole del procedimento amministrativo, conserva un carattere di specialità rispetto all’analogo potere del datore di lavoro privato, perché la qualità del soggetto che lo esercita incide sulle finalità alla cui realizzazione l’esercizio del potere deve essere indirizzato. L’art. 2106 cod. civ., applicabile anche all’impiego pubblico contrattualizzato in forza del richiamo contenuto nell’art. 55 del d.lgs. n. 165 del 2001, consacra il potere del datore di lavoro di reagire unilateralmente alle condotte tenute dal prestatore in violazione degli obblighi contrattuali.

Detti obblighi, peraltro, nell’impresa privata sono funzionali alla redditività dell’impresa stessa e vengono imposti dal datore di lavoro nell’esercizio della libertà di iniziativa economica riconosciuta dall’art. 41 cost.; nelle amministrazioni pubbliche, invece, le regole di condotta devono assicurare il rispetto dei principi, di rilievo costituzionale, di buon andamento, imparzialità e legalità dell’azione amministrativa.

Il potere, quindi, sebbene di natura privatistica, è condizionato dalla presenza di interessi che trascendono quelli del singolo datore di lavoro e ciò giustifica la specialità della disciplina e la non estensibilità all’impiego pubblico contrattualizzato di quei principi, affermati per il procedimento disciplinare dell’impiego privato, che non siano compatibili con il perseguimento degli interessi di cui si è detto.

Fra questi va annoverato quello della discrezionalità dell’esercizio del potere disciplinare, giacché se il datore di lavoro privato è libero di valutare la opportunità e la convenienza dell’iniziativa e anche di tollerare comportamenti che potrebbero essere ritenuti disciplinarmente rilevanti, non altrettanto può dirsi per il dirigente pubblico, che deve ispirare costantemente la propria condotta alla tutela degli interessi generali sopra evidenziati e, quindi, in nessun caso può consentire che rimangano impunite condotte poste in essere dall’impiegato in violazione delle regole di comportamento imposte dalla legge o dal contratto collettivo, nei limiti consentiti dalla nuova formulazione dell’art. 55 del d.lgs. n. 165 del 2001.

Non a caso l’art. 55 sexies del richiamato decreto, inserito dal d.lgs. n. 150 del 27.10.2009, ha previsto, al comma 3, la responsabilità del dirigente per il ritardo o l’omissione della iniziativa disciplinare, evidentemente ritenuta doverosa dal legislatore. E’ anche significativo rilevare che in occasione dell’intervento riformatore sono stati sensibilmente ristretti i limiti del cosiddetto patteggiamento disciplinare, escluso per le condotte più gravi punite con la sanzione espulsiva, e inoltre limitato al quantum della misura, essendo preclusa la applicazione concordata di una pena di natura diversa da quella prevista dalla legge o dal contratto.

Non vi è dubbio, quindi, che, quantomeno a seguito della entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2009, nell’impiego pubblico contrattualizzato l’azione disciplinare sia caratterizzata dalla obbligatorietà.

Da ciò discende che nel rapporto alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche l’inerzia nella repressione del comportamento contrario ai doveri di ufficio può solo rilevare quale causa di decadenza dall’esercizio dell’azione, ove comporti il mancato rispetto dei termini perentori imposti dal legislatore, ma non può mai fare sorgere un legittimo affidamento nella liceità della condotta vietata, perché il principio dell’affidamento incolpevole presuppone che il potere del datore sia discrezionale, di modo che l’inerzia possa essere interpretata dal lavoratore subordinato come rinuncia all’esercizio del potere medesimo e come valutazione in termini di liceità della condotta.

Anche i doveri posti a carico del dipendente pubblico dalla legge, dal codice di comportamento, dalla contrattazione collettiva tengono conto della particolare natura del rapporto che pone l’impiegato al «servizio della Nazione» e, quindi, lo impegna a ispirare la propria condotta ai principi di cui sopra si è detto, efficacemente riassunti nell’ultima versione dell’art. 54 del d.lgs. n. 165 del 2001 con il richiamo ai « doveri costituzionali di diligenza, lealtà, imparzialità e servizio esclusivo alla cura dell’interesse pubblico ».

La consapevole violazione di detti doveri, strettamente connessi a interessi di carattere generale, non può essere scriminata dalla colpevole inerzia del soggetto tenuto alla segnalazione dell’illecito, inerzia che lascia inalterata la rilevanza disciplinare della condotta”

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