Merito e titolo di studio

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tratto dal sito dell’ADI. di Norberto Bottani, 28.3.2011 – L’ADi ha proposto di aprire il dibattito sull’articolo di François Dubet,  La jeunesse: sacrifiée ou enfermée? ponendo tre domande

tratto dal sito dell’ADI. di Norberto Bottani, 28.3.2011 – L’ADi ha proposto di aprire il dibattito sull’articolo di François Dubet,  La jeunesse: sacrifiée ou enfermée? ponendo tre domande

    • E’ davvero illusorio pensare che il merito scolastico possa mitigare le differenze sociali e che una scuola che ridia credibilità ai suoi esiti non sia un elemento di equità sociale che ridimensioni il potere dei clan e dei legami familistici?
    • La situazione francese descritta da Dubet è paragonabile a quella italiana?
    • In che rapporto sta il merito con il valore legale dei titoli di studio?

Le domande sono insieme intriganti, di attualità e importanti, proverò pertanto ad esprimere alcune considerazioni in merito.

Il merito scolastico

Una riflessione approfondita sulla natura del merito scolastico s’impone.

In generale si ritiene che il merito in seno all’istruzione sia giusto e che giusti siano i premi, intesi come diplomi e lauree, assegnati agli studenti meritevoli,  i quali attraverso questi titoli riescono ad ottenere lavori più redditizi.

Ora se è  vero che grazie ai titoli di studio, in particolare grazie alle lauree, è più facile trovare un posto di lavoro e guadagnare di più (dato comprovato da diverse indagini), non è assolutamente vero che questi titoli siano assegnati in modo giusto e ai  più meritevoli.

L’insistenza sul merito scolastico maschera in realtà grandi disuguaglianze e ingiustizie sociali.

Una soluzione a queste ingiustizie non è evidentemente l’apertura indiscriminata ai diplomi e alle lauree. Più grande è il numero dei laureati, minore è il valore delle lauree. Se tutti diventano dottori, il titolo di dottore non conta più nulla. In altri termini, non è con la semplice attenuazione della selezione scolastica e universitaria che si correggono gli errori che si compiono nell’individuare e valorizzare il merito.

Ugualmente non è una soluzione l’opposto, ossia una drastica selezione tout court. In primo luogo perché l’impostazione degli studi e gli strumenti di valutazione di cui i docenti dispongono non consentono di selezionare in modo giusto e corretto i meritevoli, in secondo luogo perchè è estremamente difficile riuscire a trovare una soluzione scolastica giusta a un problema che affonda le sue radici nel funzionamento ingiusto della società e dell’organizzazione del mercato del lavoro.

Ciò premesso, è evidente che una società non può fare a meno di una classe dirigente, e più questa élite, sia politica sia scientifica, è giusta, cioè rappresentativa della società dal punto di vista della ripartizione della popolazione tra classi sociali,  migliore è  la società.

Il problema dei criteri di giustizia nell’individuazione del merito, pur con tutte le difficoltà sopra espresse, non può pertanto essere eluso.

Come si selezionano i migliori in modo giusto da un punto di vista scolastico, culturale e socio-economico?  Qui mi limiterò a dire che le indagini internazionali ci indicano che:

  1. ci sono sistemi scolastici e universitari che fanno meno errori di altri nella selezione. Quindi la scuola non deve continuare a trovare alibi del suo mal funzionamento nei mali della società. C’è un ruolo autonomo  che la scuola deve giocare per essere meno ingiusta e sostenere i più svantaggiati a non essere discriminati.
  2. Ci sono società che sono strutturate in modo  da correggere gli errori che i servizi di istruzione commettono nella selezione e premiazione dei meritevoli. Queste società sono paradossalmente, come ha affermato Dubet, quelle nelle quali i diplomi scolastici hanno meno valore, nel senso che non hanno un peso eccessivo nella distribuzione dei posti di lavoro e dei posti di potere.

La situazione francese e quella italiana

La situazione italiana dal punto di vista scolastico e sociale  non è comparabile a quella francese perché in Francia il ruolo del sistema scolastico nella selezione delle élite è fortissimo. E’ convinzione comune fra i francesi che riuscire a scuola sia un criterio fondamentale per riuscire nella vita e che la scuola sia giusta nel riconoscimento dei meriti, anche se moltissime indagini sociologiche hanno dimostrato il contrario.

In Francia la politica scolastica ha svolto esattamente quanto è stato raccomandato dall’Unione Europea, da Lisbona in poi, e che è stato criticato dal premio Nobel per l’economia Paul Krugman nel recente articolo su La Repubblica, Ma una buona istruzione non basta più.  La Francia ha addirittura anticipato le decisioni di Lisbona, infatti fin  dagli anni ’80 e ’90 del secolo scorso ha posto l’obiettivo di portare all’80% di ogni  fascia d’età la proporzione degli studenti che conseguono  la maturità. Il risultato di questa politica  è drammatico. Oggi, la maturità in Francia non conta più nulla, e ci vogliono circa cinque anni di studi universitari successivi alla maturità ( bac) per conseguire una laurea che faciliti l’accesso al mercato del lavoro. E nonostante ciò ci sono molti giovani con il “bac +5” che si trovano nelle liste di disoccupazione, mentre il diploma di laurea triennale conta ormai pochissimo ai fini di una buona occupazione.

In Italia l’opinione pubblica e le autorità politiche mostrano una visione molto diversa da quella francese per quanto riguarda il peso attribuito all’istruzione. Solo alcuni ceti sociali continuano a considerare importanti i percorsi scolastici e accademici “prestigiosi”. E va aggiunto che il più delle volte le famiglie della “ buona borghesia” che iscrivono i propri rampolli ai licei prestigiosi lo fanno soprattutto per il tipo di ambiente sociale che caratterizza quelle scuole più che per la fiducia nella serietà degli studi che vi vengono impartiti.

La popolazione italiana sembra rassegnata a questa distribuzione classista tra i vari istituti scolastici e i vari indirizzi: per nascita si è destinati ai licei prestigiosi, e sempre per nascita si è assegnati agli istituti tecnico-professionali oppure ai centri di formazione professionale.

Si potrebbe dire che il sistema scolastico e universitario italiano funziona  in  maniera  fatalistica. Si tramanda di padre in figlio non solo il posto di lavoro ma anche il tipo di  laurea posseduto (v. in particolare medicina e legge). Da questo punto di vista è corretta l’osservazione fatta dal professor Andrea Cammelli nella presentazione dell’XI Rapporto di Alma Laurea secondo cui in Italia non si può correggere una tale situazione senza incrementare il numero dei laureati, ampliando il ventaglio dei ceti sociali che possono accedere a posizioni di prestigio nella società e a posti qualificati nel mondo del lavoro.

Il valore legale dei titoli di studio

Alla luce di quanto è stato sopra esposto, togliere il feticcio del valore legale del titolo di studio potrebbe probabilmente aiutare a rendere più giusto l’apprezzamento dei migliori e la valorizzazione del merito.

Formalmente il valore legale del titolo sancisce il possesso di una preparazione culturale e professionale omogenea su tutto il territorio nazionale, in quanto conforme agli standard  fissati dagli ordinamenti degli studi scolastici e universitari. In nome di questa presunta conformità tutti i titoli sono uguali di fronte alla legge. Ma sappiamo bene che non è così, quando si considera l’aspetto sostanziale e non formale.

Dai titoli con « valore legale » dipendono in Italia la prosecuzione negli studi, l’ammissione agli esami di stato per l’iscrizione agli albi professionali, la partecipazione ai concorsi pubblici.

Chi paga più di tutti il valore legale dei titoli di studio è notoriamente la Pubblica Amministrazione, dove per l’accesso pesa di più il certificato attestante il titolo di qualsiasi reale preparazione. Così non è nelle aziende private, che hanno criteri di reclutamento  basati prevalentemente sulle effettive competenze possedute.

Se si demolisse il feticcio del pezzo di carta forse diminuirebbe:

  1.  lo scollamento dei corsi di studio rispetto alla realtà economica esterna;
  2.  la fuga dall’Italia dei cervelli migliori;
  3.  quella mentalità conservatrice che concentra il proprio interesse nei confronti degli studi  solo ai fini del fatidico ‘pezzo di carta‘.

Paul Krugman, Ma una buona istruzione non basta più, La Repubblica 8.3.2011

 

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