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Mary Everest Boole, la scienziata vittoriana che avrebbe qualcosa da dire sulle STEM

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Il progresso scientifico come ‘battito ritmico tra competizione e altruismo’, la cultura scientifica riscattata dalla sua utilità pratica e concepita come ‘costante abitudine di tutta una vita di intimo e accogliente rapporto, anche se riverente, con l’Eternamente Infinito Sconosciuto’.

La sorprendente e attuale riflessione di Mary Everest Boole in “The preparation of the child for science”, un classico della pedagogia inglese finalmente disponibile anche nella nostra lingua.

La pedagogia del momento non è certo parca di idee se si tratta di avvicinare i bambini al pensiero scientifico, e sappiamo bene che tutto ciò che ruota intorno ai più giovani, dai giocattoli all’editoria tradizionale e multimediale, è addirittura ipertrofico da questo punto di vista.

Allora perché voltarsi indietro a guardare un testo del 1904? Perché farlo in un momento in cui la tendenza a inseguire l’ultimo grido sembra essere la direttrice metodologica fondamentale nell’insegnamento delle discipline scientifiche e di quel poderoso coagulo rappresentato dalla ‘tecnoscienza’? Se lo chiedessimo alle due autrici del saggio “I bambini e il pensiero scientifico” (Carocci, 2018) – all’interno del quale compare la traduzione integrale dell’opera – Ana Millan Gasca, ordinaria di Matematiche complementari, e Paola Magrone, ricercatrice di Analisi matematica, probabilmente risponderebbero citando la stessa Everest Boole: “L’essere aggiornati è causa del disordine: la fretta, la presunzione di cancellare rapidamente ogni impressione parziale quando non si ha nulla con cui sostituirla se non qualche altra impressione ugualmente parziale, non solo è poco scientifico, ma estremamente caotico”, così come è discutibile “supporre che l’unica preparazione alla scienza necessaria o possibile sia un insegnamento precoce delle cosiddette materie scientifiche. Un atteggiamento precoce è molto più importante di un insegnamento precoce”.

Le due autrici, scelgono, dunque, un testo che polemizza spesso con le tendenze modaiole degli scienziati dell’epoca e che si concentra sull’educazione scientifica da dare a giovani e bambini vedendola in armonia con la loro crescita morale e umana e sottolineando spesso quel “tesoro filosofico nascosto, che è in grado di arricchire la formazione di ogni ragazza e ragazzo se si integra nella cultura, perché viene incontro a molte inquietudini, curiosità, domande e talenti individuali”, come scrivono nella parte conclusiva del volume.

L’intento precipuo su cui ci sembra si focalizzino e che emerge dalla lettura attenta delle corpose prefazione e postfazione, è provare a reintegrare le STEM e le materie scientifiche in generale in un ideale formativo unitario, ben al di là dell’ottica della sola prosperità economica, nell’idea che la scuola è il luogo ideale dove può nascere e crescere l’amore per la scienza, più che nei fuochi d’artificio dei festival: tempi lunghi di lavoro, intimità, strumenti di misurazione, “l’aula è sempre un laboratorio”, dicono Millan e Magrone.

Attraverso una ricognizione che va dalla nascita delle scuole di calcolo nel Duecento a Pisa e che passa per la figura del marchese di Condorcet, con cui la matematica si affranca dalla sua utilità pratica e recupera la dignità filosofica, la scienza è sempre rappresentata in queste pagine come “amore intellettuale, ricerca della verità e della bellezza”, cosicché l’impressione che se ne ricava è che questo libro non sia stato scritto per o a partire da Mary Everest Boole, ma con lei.

Chi era Mary Everest Boole

Nata in Gran Bretagna nel 1832 e nipote dell’esploratore e geografo che diede il nome alla vetta più alta del mondo, Mary Everest Boole è stata una scienziata autodidatta che ha molto lottato per inserirsi nel panorama culturale della sua epoca (esiste per esempio un carteggio con Charles Darwin) e che ha indirizzato i suoi sforzi a una speculazione in grado di conciliare passione scientifica e radicate convinzioni religiose. Nel tentativo di preservare la scienza dall’invadenza del fanatismo scientista la studiosa vittoriana non si è, infatti, accontentata della ‘fredda convivenza’ ideata dai positivisti tra religione e scienza, ma si è spinta oltre: “Ai bambini non bisognerebbe mai dare l’immagine della scienza come di un’entità trionfante sulle ali della ragione e della logica. Il desiderio di conoscenza e di indagine sono il tocco di Dio nel cuore dell’uomo” scrive per esempio in un punto del saggio appena tradotto; superfluo forse notare quanto una posizione del genere risultasse indigesta negli ambienti del positivismo inglese, nei quali spesso la Everest venne tacciata di ‘confusione’ e di apertura verso l’irrazionalismo (molto meno radicali, furono, invece, le critiche al marito, George Boole, noto per avere contribuito alla disciplina con lo studio della logica e della psiche umana).

La postura scientifica tra deferenza verso l’ignoto e pulsazione ritmica

È difficile comprendere le accuse dei detrattori dopo avere sperimentato la pacatezza con cui la studiosa ribadisce la logica della misurazione, della ricerca di costanti e di leggi, della previsione – “l’attenzione ai dettagli e l’abitudine di compilare dei resoconti, la pertinenza nel rispondere alle domande, la capacità di distinguere fra fonti di informazione dirette o indirette e valutare la loro attendibilità, l’immaginazione matematica e scientifica che permette di guardare la realtà e adoperare strumenti di conoscenza astratti, la capacità di tenere distinte le ipotesi dai fatti verificati e dalle fantasie” – o l’etica rigorosa che deve accompagnare i due atteggiamenti fondanti della postura scientifica, cioè ‘la deferenza rispetto all’ignoto’ e la ‘pulsazione ritmica’ tra intuizione e stupore, analisi e sintesi, altruismo e competizione, nell’idea che anche l’errore contenga semi di conoscenza.

Ed è gustoso che sia lei stessa a tacciare di antiscientificità gli stratagemmi che spingono – allora proprio come ora – gli studenti a superare i test di materie che in realtà non capiscono: “Quella delicata sensibilità verso il tocco dell’illogico, verso i limiti della conoscenza, e verso la Presenza dell’Ancora-Sconosciuto, che alcuni grandi matematici hanno cercato di ridurre a un meccanismo automatico, è troppo spesso distrutto nella mente umana da processi rozzi e prestabiliti, adottati, alle volte con lo scopo di fissare le opinioni dei giovani, a volte con quello di consentire loro di superare gli esami in materie che in realtà non capiscono “.

Oltre la didattica, al cuore del problema

Visto lo spessore di queste riflessioni, sembra ingiusto che l’attività didattica per la quale Mary Everest Boole è più ricordata oggi sia la costruzione delle curve a partire dai fili cuciti su un cartoncino perforato dall’ago in certi punti (“una attività nel corso della quale si “costruiscono” curve oltre la familiare circonferenza e nella quale appare implicitamente l’idea di tangente: si tracciano soltanto rette, eppure il risultato che appare davanti agli occhi, il profilo che possiamo seguire con il dito, è quello di una curva, che si chiama in matematica inviluppo della famiglia di rette”); tuttavia anche da un’attività manuale come quella appena descritta le è facile riannodarsi al cuore del problema: “Si presentano agli allievi quindi idee matematiche avanzate – tipiche della scuola secondaria superiore – evitando però un insegnamento formale, “artificiale” (che sarebbe prematuro). Si prepara il terreno per lo studio futuro attraverso un gioco visivo, tattile e motorio, che sfrutta le capacità manuale dei bambini e l’idea di retta finita come filo tirato tra due punti, una delle più antiche concezioni della geometria”.

La scienziata insegna, così, che interrogarsi su come la scienza debba essere insegnata ai bambini significa porsi domande essenziali sul metodo scientifico stesso, riflettere su quanto si voglia farlo rimanere vitale all’interno delle scuole e quindi dell’abito mentale degli individui e della società intera, con quali prerogative e con quali prospettive: “La scienza si è evoluta grazie all’azione equilibrata di queste due facoltà o poteri: la naturale curiosità della scimmia e la riverenza spirituale disciplinata. Coltivare esageratamente la curiosità distruttiva è un modo sbrigativo di consentire ai bambini di mettersi in mostra alle interrogazioni di scienze; ma questo genere di cose non induce l’abitudine al vero metodo scientifico, che dipende dall’alternanza degli opposti. Per iniziare un bambino al metodo scientifico, i suoi primissimi studi devono andare nella direzione del bilanciare la sua naturale aggressività imparando a promuovere la vita e a studiare pazientemente lo sviluppo degli esseri viventi”.

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