Lo stretto legame tra conoscenze e competenze. Lettera

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inviato da Gaetano Vergara – Imperversa nelle scuole, in rete e sulle riviste di didattica un dibattito che contrappone conoscenze e competenze; un luogo comune della retorica dei nostri tempi che finirà per diventare una sottospecie di genere letterario, una sorta di disputa medievale, tipo la “Razón de amor y los denuestos del agua y el vino“, la “Disputa dell’anima e del corpo”, il dibattito sulla superiorità dei chierici sui cavalieri o la superiorità dei cavalieri sui chierici, la “querelle des Anciens et des Modernes“, il sostegno a Bartali versus il sostegno a Coppi, la doccia di sinistra contrapposta al bagno di destra (o era il contrario?)…

Insomma, si cerca di affermare una parte annullando o escludendo l’altra, come se potesse esistere una competenza assoluta che prescinda da ogni conoscenza o come se si potessero acquisire delle conoscenze senza mettere in moto tutta una serie di competenze che servono a far sì che le conoscenze diventino parte stabile e integrante della nostra enciclopedia personale.

Mi viene in mente l’apologo indiano dei sei saggi ciechi che si trovarono per la prima volta nella loro vita al cospetto di un elefante e, per descriverlo, cominciarono a toccarlo.
Il primo saggio, avendogli toccato l’orecchio, definì il pachiderma come un grande farfalla.
Il secondo gli toccò la zampa e pensò al tronco di un albero.
Il terzo, con ancora la coda tra le mani, disse che l’elefante era simile a una corda.
Il quarto, dalla punta della zanna, pensò a una lancia acuminata.
Il quinto, palpandogli gli enormi fianchi, affermava che si trovavano al cospetto di una muraglia movente e il sesto, toccandogli la proboscide, assicurava che si trattasse di una specie di serpente.
Tutti illusi che la loro parziale rappresentazione potesse descrivere la totalità e la complessità dell’elefante.

Mi pare che, escludendo nel processo formativo una volta la conoscenza (il sapere) e un’altra la competenza (il saper fare), ci comportiamo proprio come i sei ciechi dell’apologo indiano.

Cerco di spiegare cosa intendo con degli esempi.

1. Un bambino che impara a vedere l’ora acquisisce una competenza che non può prescindere dal sistema numerico decimale e dalla numerazione per 5 (poco importa se parliamo di numerazione, progressione aritmetica, tabellina o tavola pitagorica).
2. Similmente, fare in modo che gli alunni sappiano fare un’analisi testuale non può prescindere dal far acquisire loro la conoscenza dei generi letterari, delle figure retoriche, della metrica e, al limite, anche delle coordinate culturali che ci permettono di riconoscere l’appartenenza di un autore a una determinata corrente letteraria…
3. Imparare i verbi della propria lingua o di una lingua straniera presuppone una serie di competenze molto raffinate che servono a inserirli in categorie che grosso modo chiamiamo tempi e modi e in sottocategorie che definiamo tempi semplici e tempi composti, voci attive e voci passive, modi definiti e modi indefiniti… E credo che non ci sia dubbio che comprendere il sistema verbale di una lingua aiuti anche alla sua memorizzazione ed all’uso corretto della consecutio temporum e dell’attrazione modale, in un naturale intreccio di competenza e conoscenza.

D’altronde, nemmeno la tanto vagheggiata buona scuola dei tempi che furono era tutta basata sulle conoscenze. Il vecchio liceo classico (quello che formava la classe dirigente), non insegnava solo le declinazioni greche e latine e la vita e le opere di Cicerone e Demostene, ma soprattutto offriva agli alunni le competenze per leggere un testo in lingua latina o greca, ragionare sulla sua struttura e tradurlo in buon italiano. E anche lo studio della filosofia e della letteratura non si basava su semplici nozioni da mandare a memoria, ma tendeva a fornire capacità di ragionare sui sistemi, operare confronti, esprimere giudizi critici…

Non ha senso parlare di scuola della conoscenza o di scuola della competenza. A scuola si imparano cose e si impara a fare cose. Come nella vita. Dove appendiamo quadri al muro dopo aver conosciuto il muro, i quadri, i chiodi e il martello e dopo aver imparato a martellare senza puntarci il martello sul dito. Ahi!

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