L’importanza didattica della barzelletta. Lettera

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Inviato da Luigi Lavorgna – Premetto che sono un docente in pensione che, dopo un anno di lontananza dal servizio attivo, e nonostante le poco soddisfacenti condizioni di salute, deve ammettere che la scuola gli manca…

Il lavoro del docente sarà pure altamente usurante, poco retribuito e svolto in condizioni ambientali spesso precarie, ma mi manca. Mi manca il rapporto con i miei studenti, mi manca di avere la possibilità di confrontarmi con i giovani che, nonostante tutto, non sono tanto diversi da quelli di un tempo. Se proprio vogliamo mettere i puntini sugli “i” diciamo che è cambiato solo lo scenario economico-sociale. Con le tasche vuote ed affamati di sapere quelli di allora, con più disponibilità finanziaria ma alquanto annoiati e indolenti quelli di adesso. I problemi, però, sono gli stessi. Le ansie, le paure, le incertezze, le preoccupazioni sono identiche a quelle di allora.

Quante lezioni di vita ho dato e ricevuto! Quante amarezze! Ma anche tantissime soddisfazioni… Quando ancora oggi, qualche alunno di una ventina di anni fa, incontrandomi per strada si ferma per salutarmi e ringraziarmi, mi ripaga di tutto l’impegno profuso nella mia professione. Naturalmente non sono state sempre rose e fiori, ci sono state anche le spine. Però, ne è valsa la pena. Confesso che mi piange il cuore quando vengo a conoscenza di episodi incresciosi che di tanto in tanto si verificano nelle nostre aule scolastiche.

Ciò premesso, vorrei sottolineare un aspetto che per me è stato un punto di forza nella gestione dell’aula e che ritengo prezioso ai fini didattici. Metaforicamente parlando, quando si discute di didattica, in particolare dell’interazione tra docente e alunno, è come se si entrasse in un campo minato… Nella società dell’informazione per eccellenza ogni occasione è buona per evidenziare, che gli studenti di oggi sono sfaticati, che hanno smarrito la voglia di studiare, che sono ignoranti, indisciplinati, aggressivi, ecc., ecc. Ma se “Atene piange, Sparta non ride” e, di contro, alcuni docenti sono accusati di incompetenza, di mancanza di motivazione, di abuso d’ufficio, di stalking e via dicendo. Non voglio certo minimizzare… sono tantissimi e notissimi gli episodi che con cadenza periodica assicurano una nota di “colore” alla scuola italiana, ma voglio anche rilevare che questo stato di cose finisce per confondere maggiormente le idee.

Non volendo inerpicarmi per un sentiero irto di insidie esprimendo giudizi eticamente opinabili, mi limito soltanto a sottolineare una tesi, ribadisco puramente soggettiva, che ritengo sia funzionale per stabilire un’efficace modalità di interazione del docente con la propria classe: l’importanza didattica della barzelletta.

Non si scandalizzino, non storcano la bocca o arriccino il naso i professionisti dell’indignazione, almeno non prima di aver terminato la lettura.

Sembra una barzelletta, ma non lo è. Per quanto riguarda la mia esperienza di docente negli istituti di scuola superiore, diverse volte, un sano umorismo si è rivelato particolarmente efficace ai fini didattici. Ovviamente facendone un uso all’insegna dell’equilibrio, altrimenti il tutto finisce a “tarallucci e vino”.

Qualche aneddoto estrapolato dall’esperienza personale, chiarirà il mio punto di vista.

Quando la classe, soprattutto durante la quinta e sesta ora di lezione, era stanca e cominciava a dare segni di insofferenza e il clima diventava alquanto “caldo”, per richiamarla ad un comportamento più consono, raccontavo la seguente barzelletta:

Un signore entra in un negozio di abbigliamento e al solerte e gentile commesso dice: “Ho bisogno di una cravatta di colore giallo, ma non proprio giallo, ma giallo, giallo, giallo!”. Immediatamente il ragazzo allinea in bella evidenza sul bancone diverse cravatte gialle e chiede al signore di scegliere quella che preferisce. Quest’ultimo, dopo aver guardato distrattamente le cravatte, le respinge e con un mix tra il disgusto e l’arroganza risponde: “Giovanotto, lei non mi ha capito… io ho chiesto una cravatta gialla, ma non proprio gialla, ma gialla, gialla, gialla!!”. Il ragazzo, sospirando alza gli occhi al cielo e con malavoglia fruga ancora nelle cravatte e ne sceglie altre due o tre dove è presente qualche parvenza di giallo e gliele propone. Ma l’altro imperterrito: “Giovanotto, ma lei ha proprio deciso di farmi arrabbiare… io le ho chiesto una cravatta gialla, ma non proprio gialla, ma gialla, gialla, gialla!!!”. Al che, scandendo bene le parole, il ragazzo, con un mix tra la rabbia e l’impotenza, esplode: “Signore, lei mi ha rotto le palle… ma non proprio le palle, ma le palle, palle, palle!!!!”.

Vi assicuro che nel novanta per cento dei casi, e la stima è per difetto, funzionava alla grande. In questo modo, potremmo dire creativo, riuscivo a comunicare ai ragazzi che stavano esagerando, senza alzare la voce o dover ricorrere a rimproveri, discussioni, richiami, parolacce, note sul registro di classe e quant’altro che avrebbe peggiorato la situazione. Una sana risata e, nella maggior parte dei casi, si ritornava alla normalità senza colpo ferire.

Quando invece volevo sensibilizzare i miei studenti a profondere un maggior impegno nello studio facevo ricorso a questa barzelletta:

La vicenda si svolge durante una prova d’orchestra. Dopo una mezz’ora circa dall’inizio, il Direttore è costretto a sospendere l’esecuzione perché un musicista era andato fuori tempo. Guardandolo torvo gli domanda: “Che tempo è?” L’altro farfuglia delle scuse. La prova riprende ma, dopo un altro quarto d’ora circa, la scena si ripete. Di nuovo l’interruzione e il direttore visibilmente seccato ripete: “Che tempo è?!” Di nuovo le scuse. Si riprende e, come facilmente potete immaginare, manco a farlo apposta, la steccata, puntuale come una cambiale scaduta, si ripete. E il direttore, paonazzo in viso, con un tono di voce soffocato dall’ira, ripropone la domanda: “Ma che tempo è?!!” Ed ecco che in un silenzio assoluto e carico di tensione, qualcuno dal fondo risponde: “È tempo perso!!”.

In questo modo, sollecitando l’amor proprio, comunicavo, al lui o alla lei di turno, che era una “schifezza” di studente senza offenderne la dignità.

Quando, infine, volevo coinvolgerli senza far pesare l’autorità ma piuttosto fare leva sull’autorevolezza, la barzelletta che proponevo era la seguente:

Pasquale è un giovanotto ventiseienne che, terminati gli studi, sta svolgendo il servizio militare. Dovete sapere che Pasquale è un bravo ragazzo, un bonaccione con un gran cuore, sempre disponibile con tutti. Un giorno, il comandante della caserma lo chiama e gli dice: <<Caro Pasquale, domani verrà il Generale a fare un’ispezione in caserma, ho deciso di metterti di picchetto davanti al cancello. Mi raccomando non farmi fare brutta figura>>. <<Stia tranquillo comandante>> risponde Pasquale. E il comandante: <<Stai attento che, probabilmente, il generale ti farà qualche domanda come, ad esempio, “Quanti anni hai?” e tu gli dirai: “Ventisei anni”, poi ti chiederà “Da quanto tempo stai qua?” e tu gli risponderai “Sei mesi” e ancora ti chiederà: “Come va il vitto e l’alloggio?” e tu gli dirai “Non c’è male tutti e due”. Hai capito?>> E Pasquale: “Signorsì!”. Il giorno dopo arriva il generale e come previsto chiede a Pasquale: “Da quanto tempo stai qua?” e Pasquale, con convinzione risponde: “Ventisei anni”. Meravigliato il generale chiede: “E da quanto tempo stai qui?” E Pasquale, prontamente: “Sei mesi”. “Giovanotto, qua due sono le cose: o sei matto tu o sono matto io!” E Pasquale impassibile: “Non c’è male tutti e due!”.

Qualcuno potrebbe obiettare che in quest’ultimo caso il ruolo di docente viene svilito. Il problema di fondo è che se si arriva a puntualizzare “chi sono io” e “chi sei tu”, non si fa molta strada. E aggiungo che se non ci pone su di un piano paritario, non può esserci comunicazione. Come ha scritto qualcuno: bisogna correggere senza offendere e insegnare senza umiliare.

Avvertenza per l’uso: è consigliabile che la barzelletta sia di impatto immediato, ossia comprensibile e accattivante. Niente “humor all’inglese” per intenderci. La lezione, e chiudo, l’ho imparata quando ero io a sedere sui banchi di scuola… un giorno, il nostro prof di Lettere raccontò una barzelletta di cui non avevo capito una mazza e credo che come me anche la maggioranza dei miei compagni. Ciononostante, escluso me, tutti compatti ad applaudire. Mi rivolsi al mio compagno di banco e gli chiesi se avesse capito. Rispose di no, ed io: “E allora perché batti le mani?” E lui: “Ma che ti frega, batti le mani anche tu!”.

A voi le conclusioni…

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