Licenziamento, quando può essere ritorsivo o discriminatorio

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I principi che ora seguono sono stati affermati in casistiche riguardanti il settore privato, i cui principi di diritto però possono ben essere estesi anche al settore pubblico, dunque alla scuola, stante anche la contrattualizzazione del rapporto di lavoro.

Principi che pur riguardanti la fattispecie massima sanzionatoria, quale il licenziamento, avvenuto per ragioni discriminatorie o ritorsive, possono essere ricondotti anche ad altre ipotesi comportamentali che si possono affermare nel rapporto di lavoro.

Il Trib. Ravenna Sez. lavoro,con la sentenza 15-11-2016 afferma: “Circa la natura “discriminatoria”, vengono in rilievo le definizioni richiamate di cui all’art. 4 della L. n. 604 del 1966 secondo la quale “Il licenziamento determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali e nullo, indipendentemente dalla motivazione adottata” e di cui all’art. 15 dello Statuto, secondo la quale “E’ nullo qualsiasi patto od atto diretto a: subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte; licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero.

Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso (di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali)”, nonché tutte le specifiche ipotesi antidiscriminatorie considerate meritevoli di tutela dal legislatore. La distinzione tra motivo discriminatorio e il motivo ritorsivo è stata di recente ribadita dalla Suprema Corte, laddove ha statuito che “La nullità del licenziamento discriminatorio discende direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno, quali l’art. 4 della L. n. 604 del 1966, l’art. 15 st.lav. e l’art. 3 della L. n. 108 del 1990, nonché di diritto Europeo, quali quelle contenute nella direttiva n. 76/207/CEE sulle discriminazioni di genere, sicché, diversamente dall’ipotesi di licenziamento ritorsivo, non è necessaria la sussistenza di un motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c., né la natura discriminatoria può essere esclusa dalla concorrenza di un’altra finalità, pur legittima, quale il motivo economico. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito sulla natura discriminatoria di un licenziamento che conseguiva la comunicazione della dipendente di volersi assentare per sottoporsi ad un trattamento di fecondazione assistita)” (6575/2016).

La giurisprudenza, tuttavia, in relazione a fattispecie in materia di organizzazioni di tendenza, ha ampliato il concetto tipico di discriminazione ricomprendendovi (o equiparandovi) anche concetti diversi, quale la “rappresaglia” o la “ritorsione”, al fine di fare rientrare le stesse sotto l’alveo dell’eccezione al divieto di tutela reale.

L’orientamento è consolidato (da ultimo v. Cass. n. 24648/2015 secondo la quale “…il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta – assimilabile a quello discriminatorio – costituisce l’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione, con conseguente nullità del licenziamento, quando il motivo ritorsivo sia stato l’unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni (Cass. 8 agosto 2011, n. 17087); il divieto di licenziamento discriminatorio – sancito dall’art. 4 della L. n. 604 del 1966, dall’art. 15 della L. n. 300 del 1970 e dall’art. 3 della L. n. 108 del 1990 – è suscettibile di interpretazione estensiva sicché l’area dei singoli motivi vietati comprende anche il licenziamento per ritorsione o rappresaglia, che costituisce cioè l’ingiusta e arbitraria reazione, quale unica ragione del provvedimento espulsivo, essenzialmente quindi di natura vendicativa, essendo necessario, in tali casi, dimostrare, anche per presunzioni, che il recesso sia stato motivato esclusivamente dall’intento ritorsivo (Cass. 18 marzo 2011, n. 6282, in senso analogo: Cass. 27 febbraio 2015, n. 3986)”).

Il Trib. Bari Sez. lavoro, Sent., 11-05-2016 richiama, invece, questo orientamento:
“Nel caso di controversia concernente la legittimità del licenziamento di un lavoratore sindacalmente attivo, per affermare il carattere ritorsivo e quindi la nullità del provvedimento espulsivo, in quanto fondato su un motivo illecito, occorre specificamente dimostrare, con onere a carico del lavoratore, che l’intento discriminatorio e di rappresaglia per l’attività svolta abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso; in particolare, ai fini dell’accertamento dell’intento ritorsivo del licenziamento, non è sufficiente la deduzione dell’appartenenza del lavoratore ad un sindacato, o la sua partecipazione attiva ad attività sindacali, ma è necessaria la prova della sussistenza di un rapporto di causalità tra tali circostanze e l’asserito intento di rappresaglia, dovendo, in mancanza, escludersi la finalità ritorsiva del licenziamento” (Cass., sez. lav., 14.07.2005, n. 14816, conforme Cass. sez. lav. 23 agosto 1996 n.7768).

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