Letteratura, la “spartenza” di Ovidio distante dalle sponde natìe

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di Pierfranco Bruni – C’è una visione metafisica fondamentale nel passaggio tra le “Metamorfosi” (il vero poema epico che data 2 – 8 d.C.) e i “Fasti” (si tratta di una elegia eziologica scritta tra il 2 – 8 d.C.) e gli scritti successivi, ovvero quelli definiti dell’esilio.

Ovidio resta sì uno scrittore e un filosofo del mito e del viaggio tra gli archetipi, ma si consolida come un personaggio che nell’esilio recupera la trasparenza del suo dolore di esistere. Già a partire dagli “Amores” (la assoluta elegia amorosa scritta dopo il 20 a.C.) il dolorante sguardo verso la donna amante è un trascinamento di una mancanza di profondità d’amare.

Rimediare agli amori è un po’ come recuperare il tempo svanito dietro le leggerezza dell’amare e dell’amore. Tant’è che nelle sue fasi creative l’ironia dei “Medicamina” (siamo al poemetto erotico didascalico tra il 1 a.C. – 1 d.C.) diventa una vera e propria arte che si lega sia ai “Remedia amoris” sia a “Ars amatoria” (siamo ad altri due poemetti sempre databili 1 a. C. – 1 d. C.). l’arte di intrecciare l’amore e il sacrificio della perdita o del “lascito” di un amore.

Il testo forte che annuncia e anticipa sia le “Metamorfosi” che i testi propriamente scritti in esilio resta indubbiamente il lavoro originale degli “Herodes” (un libro di epistole in versi di una marcata miticità simbolica che richiama il cammino di Omero e Virgilio oltre alla presenza di Saffo e dei altri “artigli” mitico – rituali scritto tra il 15 a. C. – 8 d. C.).

Il mito è, comunque, l’estrema dimensione del superamento della storia e di ogni finestra aperta sul senso della ragione. Il mito è rivelazione. Ovidio, in fondo, con le “Metramorfosi” si apre alla rivelazione che diventa dissolvimento della storia e trasparenza della favola. Uno stile che non è una trincea nella cultura popolare. Anzi, il contrario. Il mito non intercetta la cultura popolare per il semplice fatto che si dichiara attraverso il simbolo.

I simboli sono le metafore di un modello rivelante che si legge soltanto quando diventa rivelato. Ecco perché si contrappone alla storia. La storia ha bisogno del reale e della cronaca per raccontarsi. Il mito del sublime che diventa l’eleganza e lo stile di un paesaggio linguistico diversificante e non omologante.

Le “Metamorfosi” si propongono come il riferimento di un cortocircuito avvenuto tra Omero e Virgilio. Omero è essenzialmente mito e metafora in una ontologia dei personaggi. Virgilio va oltre il mito perché superato Enea l’anticamera del pre e post linguaggio è rappresentato da scritti come le “Georgiche” e le “Bucoliche”. Ovidio non perde mai l’eleganza del sublime.

Nei due testi centrali scritti negli anni del suo esilio ciò è ben testimoniato. I “Tristia” e le “Epistole ex Ponto”. Soprattutto nel primo (scritto tra 8 – 12 d. C., si tratta delle elegie in cui la malinconia ha il suo volto specchiato nella parola) quel dolore che si ascolta e riascolta nel canto degli amori qui diventa un peregrinare tra immagini e preghiere. Qui l’omerico ulissismo è molto pregnante. Qui si distacca completamente da Enea per rappresentarsi nel suo “dannato”, appunto, ulissismo. Come è riscontrabile anche nel secondo lavoro che porta la stessa data è costituito da epistole in versi.

Il diario o l’autobiografismo ha sempre caratterizzato Ovidio tranne che nella costruzione delle “Metramorfosi”, la cui idea nasce per andare oltre Virgilio. Il punto è qui. Sia della sua opera che della sua vita. Superare il celebrazionismo alla Virgilio anche se lui non lo ha abbandonato, perché le sue opere erano strategicamente dedicate. Ovidio non distrugge la tradizione ma la recupera nella innovazione attraverso l’insistenza di Omero. Un fatto che ha molto infastidito il potere culturale del mecenatismo.

Ovidio, dopo Virgilio, era il poeta e filosofo della progettualità. Il suo contributo letterario si è sempre legato ad una !ars” filosofica, e in quanto tale ha sempre sistematizzato teoricamente la sua dimensione letteraria. Intorno a tale dimensione ha inventato la tesi di una poesia che nascesse dal sublime. Un sublime che per reggersi ha necessariamente bisogno della metafisica dell’anima.

I miti di Ovidio non sono classificabili semplicemente come i Miti del Mediterraneo o dal trascinamento di civiltà nel Mediterraneo. Sono i Miti Greci che danno un senso alla latinità. Non è una interpretazione tanto accettabile in un tempo augusteo. Afferma sostanzialmente ciò che non deve essere affermato. Si avverte tranquillamente ciò proprio nelle “Metamorfosi” che non è soltanto un poema epico, ma è soprattutto un poema dell’immaginazione.

L’immagine e l’immaginario sono una antropologia dell’indefinibile e dell’invisibile e comunque esistono e insistono. Appunto l’immaginario prevede la dissoluzione della storia. Ciò avviene attraverso la trasformazione dell’acquisito. I popoli non esistono più. Esiste l’uomo.
L’uomo lacera ogni storia per diventare antropologia di se stesso. Ovidio, in fondo, disubbidisce agli schemi di Virgilio e al dato affermato per certo come la latinità e i principi della stessa. Per Ovidio è l’incertezza che domina l’uomo. L’incertezza non è altro che l’inquietudine.

Con Ovidio, infatti, nasce il male di vivere, la malinconia e recupera la nostalgia omerica. Spezza un dogma. Spezzandolo propone lo svelamento, la trasparenza del linguaggio, il cambiamento. Il suo viaggio non è più una partenza in attesa del ritorno.

Diventa così una “spartenza”, ovvero una partenza senza ritorno, ovvero la condivisione di una solitudine di cui Ovidio prende atto nella tristezza della consapevolezza: “Finché sarai felice, conterai molti amici; ma se il tempo si rannuvolerà, resterai solo”. Ma egli riconoscendosi coerente con la sua opera ammetterà semplicemente: “Bene visse chi seppe vivere nell’oscurità” e ancora: “Piango i miei mali: nel pianto v’è una certa voluttà, ed il dolore che si scioglie in lagrime trova un sollievo”.

Vive dentro questo contesto di sofferenza. Non ci sarà sollievo. Morire lontano dalle proprie sponde è una consolazione senza resa: “Sopporta e persevera; cose molto più gravi sopportasti”.

Uno specchio, il suo esilio, che resterà nell’esperienza della sua lontananza. Essere lontani è come non esserci, per Ovidio. Il suo luogo natìo è una lontananza. Nella lontananza la partenza da quel dì dell’8 d. C. è vissuta come la meridiana del dolore che si trasforma in spartenza.

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