La prevenzione dello Stress Lavoro Correlato nei docenti è cosa seria e richiede risorse

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Si è tenuto in dicembre, alla ATS di Milano, un convegno per parlare di prevenzione del burnout e dello Stress Lavoro Correlato (SLC) nelle scuole.

Obiettivo del convegno era il confronto tra due posizioni che adottano approcci differenti: la prima posizione (sostenuta dal Sirvess-USR Veneto) ritiene che sia necessario individuare, attraverso un elaborato sistema, le scuole a rischio di SLC, per poi eventualmente intervenire in un secondo momento in maniera più incisiva, la seconda posizione (sostenuto dal sottoscritto) ritiene di dover intervenire da subito e senza ulteriori indugi su tutti i docenti con misure di prevenzione in quanto l’intera categoria professionale è ad alto rischio di SLC. Ci troviamo pertanto di fronte a due strategie differenti che pur si propongono il medesimo obiettivo.

Il metodo Sirvess è stato adottato nel 2017 anche da 22 scuole lombarde sotto il tutoraggio della ATS di Milano ed il risultato cui si era pervenuti vedeva 20 scuole con basso rischio SLC, 2 a medio rischio e nessuna ad alto rischio. I risultati erano sovrapponibili a quelli ottenuti dal Sirvess negli istituti scolastici del Veneto.

In altre parole ci troviamo di fronte a un risultato del tutto inatteso, posto che studi scientifici nazionali e internazionali dicono esattamente il contrario. Francia, Inghilterra, Germania, Giappone e altri innumerevoli Paesi infatti denunciano addirittura il maggior rischio suicidario professionale nella categoria degli insegnanti e il prepensionamento per motivi di salute dovuto prevalentemente a patologie con diagnosi psichiatriche. I pochi studi italiani disponibili (Milano, Torino e Verona) arrivano poi alle stesse conclusioni, facendo registrare giudizi medico-legali di inidoneità all’insegnamento con una maggioranza assoluta di diagnosi psichiatriche, fino a cinque volte superiore alle disfonie (corditi, laringiti croniche, tracheiti) che sono peraltro riconosciute come causa di servizio. Le conclusioni di questi studi sono poi state successivamente riconfermate anche dalle ricerche del Conbs-2012 e della Università Cattolica di Roma nel 2016.

Possiamo sintetizzare efficacemente in poche righe i risultati delle succitate ricerche concludendo che l’attività professionale degli insegnanti è così psicofisicamente usurante da: 1) prescindere dai differenti sistemi scolastici adottati dai diversi Paesi; 2) determinare patologie psichiatriche a prescindere dai diversi livelli d’insegnamento; 3) annullare la differenza di genere dell’esposizione al rischio depressivo tra uomo e donna (notoriamente 1:2); 4) generare un rischio suicidario più alto rispetto alle altre categorie professionali nonostante la predominante presenza femminile che è fattore di contenimento del fenomeno (rapporto suicidario uomo-donna è di 4:1). In definitiva l’usura psicofisica del docente non è da attribuirsi a questioni organizzativo-gestionali bensì, in massima parte, all’esclusiva tipologia di rapporto con la medesima utenza che è reiterata, prolungata, quotidiana, asimmetrica, intergenerazionale, minoritaria, senza maschera e caratterizzata dal fenomeno Dorian Gray invertito.

Se dunque meraviglia l’atteggiamento di chi volutamente ignora risultati nazionali e internazionali per ripartire da zero, stupisce oltremodo il risultato affatto opposto e perciò sorprendente cui il metodo Sirvess perviene. Di fronte al suddetto esito si possono dare due sole spiegazioni: o l’Italia è, nel mondo, l’unica isola felice in cui la professione insegnante non ha problemi di natura medica (conclusione pur sempre in palese contrasto con gli studi italiani di cui sopra), o le conclusioni cui è approdata la ricerca sono errate verosimilmente a causa del sistema di rilevazione utilizzato. Tertium non datur.

Dobbiamo inoltre ricordare che termini quali “SLC, Burnout, Rischi Psicosociali” non corrispondono a diagnosi mediche e non sono pertanto considerati malattie. Fare perciò la prevenzione di tali entità non meglio definite, e neanche ricomprese nei relativi manuali diagnostici (DSM-V e ICD 10), diviene oltremodo arduo. Al contrario, gli studi italiani si fondano su diagnosi mediche poste addirittura da collegi medici (CMV) e nemmeno da singoli professionisti.

Il sistema Sirvess tuttavia desta numerose e ulteriori perplessità come di seguito evidenziato: a) richiede una complessa attività di compilazione di molteplici schede con un imponente aggravio del carico burocratico per l’amministrazione scolastica; b) utilizza questionari anonimi i cui risultati possono essere inficiati dagli stereotipi dell’opinione pubblica sugli insegnanti (di cui gli stessi docenti sono peraltro affetti), dalla ignoranza sulle loro malattie professionali e dalla “dissimulazione” quale più tipica reazione di adattamento allo stigma verso il disagio mentale) ; c) è un sistema collettivo, non individuale, che perviene a un “valore medio” prescindendo dalla condizione di reale salute o patologia del singolo lavoratore; d) prevede obbligatoriamente la presenza del dirigente scolastico o di un suo collaboratore nel Gruppo di Valutazione (GdV) trascurando un evidente conflitto d’interessi; e) prevede che il GdV possa avere incomprensibilmente anche un solo docente al suo interno ma soprattutto non prevede la partecipazione del RSU nonostante il nuovo contratto contempli la prevenzione del burnout a livello regionale e d’istituto; f) sostiene di impiegare un metodo “fai da te” che esclude il ricorso a risorse esterne in quanto la scuola è ritenuta capace di gestire la prevenzione “… perché metodica e strumenti sono assolutamente compatibili con le competenze e professionalità che normalmente si trovano all’interno di qualsiasi scuola”; g) fa passare il concetto che la prevenzione è attuabile da chicchessia a costo ridotto, validando così l’attuale assenza dello stanziamento di fondi all’uopo; h) presenta come unico apporto sanitario, peraltro “non necessario nel caso non vi fosse nella scuola”, la presenza del medico competente che sappiamo essere in dotazione a pochissime scuole o istituti; i) tralascia il fatto che la stessa categoria medica (ivi inclusi i medici competenti) non è adeguatamente formata sulle malattie degli insegnanti, sebbene le stesse siano ampiamente diagnosticate dai Collegi Medici di Verifica; l) l’operatività del GdV (quasi sempre in assenza di medico) è sorprendentemente paragonata “…a un consiglio di classe impegnato negli scrutini di fine anno in cui la decisione sulla proposta è collegiale…”, quasi si dovesse effettuare una contrattazione sindacale anziché un intervento di prevenzione sanitaria.

Certamente l’elenco potrebbe proseguire ma otterrebbe il solo risultato di distogliere il lettore dalle due domande principali cui vogliamo rispondere.

È utile, efficace, economico, nonché foriero di buoni risultati, mettere in discussione dati scientifici nazionali ed internazionali per cominciare da zero un’attività di prevenzione pionieristica e con metodologie quantomeno discutibili?

Non conviene piuttosto fare tesoro dei risultati finora acquisiti dalla comunità scientifica risparmiando tempo e denaro e implementando ricerche nazionali utili a riconoscere ufficialmente le malattie che determinano l’inidoneità all’insegnamento?

Al contempo – questa la proposta alternativa del sottoscritto che fa tesoro degli studi scientifici della comunità scientifica e da questi riparte – si deve ovviamente attuare, senza ulteriori indugi, la formazione dei dirigenti scolastici sulle tante e gravose loro incombenze medico-legali, nonché quella dei docenti circa diritti e doveri nell’esercizio della tutela della salute dei lavoratori. Si tratta in fondo di dare corpo all’inapplicato DM 382/98 che è rimasto lettera morta nonostante siano trascorsi vent’anni dalla sua emanazione.

Ai suddetti interventi andranno necessariamente affiancati, nel breve-medio termine, anche importanti azioni politico-legislative quali la revisione delle politiche previdenziali, salariali e contrattuali, tenendo conto delle condizioni di salute e di usura psicofisica della categoria professionale. Tutto ciò sarà possibile non appena saranno riconosciute ufficialmente le malattie professionali degli insegnanti che sono considerati – a ragione – la helping profession per eccellenza.

Siamo all’alba del terzo millennio e non è possibile trascurare ulteriormente la salute degli insegnanti che rappresentano il cuore pulsante della scuola.

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