La pedagogia dell’ascolto: una opportunità che la scuola non deve perdere

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Pubbliredazionale Edises – “L’ipotesi di una pedagogia dell’ascolto accomuna adulto e bambino in un unico, continuo, processo di ricerca, dove conoscere significa prima di tutto imparare a porsi e a porre delle domande.”

Così scriveva la psicoanalista Alessandra Gintzburg agli inizi degli anni Ottanta in un breve testo dal titolo Premessa ad una pedagogia dell’ascolto nella scuola dell’infanzia, pubblicato dall’Assessorato alla scuola del Comune di Roma.

Erano anni, quelli, in cui la Scuola dell’infanzia – che ancora chiamavamo “l’asilo” – era un luogo molto diverso da quella che vediamo oggi: un luogo in cui “era ancora una volta il mondo degli adulti che emergeva dalla disposizione dei banchi e della cattedra, dall’uniformità scoraggiante delle rare immagini appese ai muri.” Un luogo in cui i bambini correvano il rischio – che diveniva troppe volte certezza – “di venir quotidianamente spogliati dei loro beni più preziosi: la creatività, la fantasia”.

Al centro dell’attenzione il sapere, ma “un sapere di cui si è smarrito il significato”, come scriveva l’autrice. Grandi assenti la capacità di ascolto e, con un effetto a cascata, il dialogo, la relazione tra adulto e bambino, nonché una parte del nostro essere umani al quale noi di Occhicielo teniamo proprio tanto: la dimensione affettiva.

Certo, le cose sono molto cambiate da allora: le aule sono divise in angoli – gioco simbolico, lettura, travestimenti, tappeto – alle pareti non più “immagini dall’uniformità scoraggiante”, ma tanti esperimenti di colori e materiali e forme, che aumentano mentre, fuori, imperversa l’accanito dibattito tra chi le sostiene, chi invece le ritiene sterili e superate, chi, infine, le integra in una didattica che continua a evolversi.

La creatività e la fantasia sono approdate in pianta stabile nei programmi, accompagnate dal dialogo, dal vissuto corporeo e affettivo, dall’“intreccio inestricabile fra pensiero ed emozione”, dall’ascolto, almeno quello teorizzato, auspicato, ricercato.

Sì, teorizzato. Sì, auspicato. Sì, ricercato. Ma ancora non pienamente attuato, non ovunque almeno, non sempre, non da tutti. C’è ancora molta strada da percorrere in questo senso, e non solo a scuola.

Ascoltare l’altro – veramente – è una capacità difficilissima da acquisire. La voglia di portare avanti le nostre parole, noi stessi è forte, una sorta di istinto ad avanzare, a riempire di noi, del nostro pensiero il mondo che ci circonda. Ma non può esserci ascolto senza un passo indietro, non può esserci ascolto vero se tra noi e gli altri non riusciamo a creare uno spazio vuoto da riempire a turno e nel quale incontrarsi nel senso pieno di questa parola, cioè creare un contatto, una condivisione, una relazione.

È perché siamo convinti che ascoltare è difficile, è perché lo sperimentiamo noi stessi tutti i giorni anche quando ad ascoltare dobbiamo essere proprio noi, è perché siamo convinti che ascoltare i più piccoli sia un dovere, è perché crediamo che una scuola in cui i bambini non si sentano liberi di comunicare la ricchezza del loro meraviglioso pensiero non sia una scuola all’altezza del suo compito, che vi proponiamo questo articolo tratto da un convegno tenuto a Milano, all’Università Bicocca, dal titolo I bambini hanno più da dare che da ricevere.

Il maestro Franco Lorenzoni racconta la sua esperienza – raccolta da Francesca de Robertis che era lì ad ascoltare – della didattica dell’ascolto, fatta di dialogo, creatività, strumenti semplici, passione e una grande volontà di ascoltare davvero, anche quando è difficile, anche quando ci sono degli “obiettivi” da raggiungere.

“Perché se i bambini, costantemente, non trovano ascolto, si convincono che non hanno nulla di interessante da dire.”

… e perdono le parole… e questo non deve accadere. Per nessuna ragione.

Buona lettura!

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