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Insegnare filosofia a bambini e ragazzi, come? [INTERVISTA A NICOLA ZIPPEL]

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Finora il cambiamento della scuola è avvenuto sotto l’egida dei pedagogisti, ma un nuovo orientamento è, probabilmente, già in atto. Ne abbiamo parlato con Nicola Zippel, autore di “C’era una volta la filosofia”.

Fare filosofia con i bambini è un’attività sempre più alla moda, ma sono in pochi a sapere che dietro all’approccio che si sceglie per questa nobile attività c’è un dibattito che porta a nodi concettuali importanti, che riguardano da vicino l’intera trasformazione della scuola. Nicola Zippel, autore di due libri di successo entrambi editi da Carocci (“I bambini e la filosofia”, 2017, “C’era una volta la filosofia”, 2018 , ci spiega in questa intervista i rischi a cui la filosofia si espone se si fa adottare come paradigma del cambiamento didattico e si sofferma sul perché essa dovrebbe difendere il proprio nucleo contenutistico e la propria storia, scongiurando così il pericolo che i filosofi diventino semplici “tecnici della discussione e del ragionamento”.

Nicola Zippel, nei tuoi laboratori di filosofia con i bambini delle scuole elementari di Roma metti in scena un’innovazione didattica che si compie interamente sull’asse dei contenuti e non delle competenze. Nonostante ciò riscuoti consensi, anche autorevoli, da parte dei fautori dei primi come delle seconde, come te lo spieghi?

“Penso che la mia esperienza sia vista con favore da entrambe le posizioni perché viene interpretata come un tentativo di declinare la ‘vecchia’ scuola – quella dei contenuti che vanno spiegati e trasmessi, spesso percepita come faticosa e nozionistica – in una forma diversa. A livello di società civile, di comunità scolastica in senso ampio (famiglie, studenti, docenti), credo si comincino a riconoscere i limiti di un approccio che privilegia le competenze e a rivalutare i contenuti; in particolare gli studenti sentono il bisogno di riempire le competenze con delle conoscenze, per evitare di ritrovarsi sommersi da abilità pratiche spesso svuotate di senso e, appunto, di contenuto.

Detto questo, ritengo che l’opposizione tra competenze e conoscenze sia, di base, tanto artificiosa quanto infondata: che cos’è una competenza, se non una forma pratica di conoscenza? Ma che senso avrebbe esercitare una prassi priva di contenuto teorico?

Per tornare alla tua domanda sull’accoglienza così positiva dei miei laboratori con i bambini, credo che giochi un ruolo importante il momento presente, in cui un’esperienza come la mia ha potuto avere uno spazio e ricevere attenzione perché si sta rimettendo radicalmente in discussione la didattica tradizionale. Gli ultimi orientamenti del Miur lasciano, inoltre, intravedere un interesse sempre maggiore nei confronti della filosofia come traino per il cambiamento, un ruolo a cui finora essa ha abdicato favorendo in questo modo la pedagogia e i suoi rappresentanti. Potremmo quasi affermare che la filosofia è il nuovo ariete della ristrutturazione della scuola italiana. Tuttavia, in questo c’è un grosso rischio per la filosofia stessa: quello di trasformarsi in strumento del cambiamento del paradigma didattico, perdendo così la propria natura di sapere dotato di una sua specificità storica e concettuale. Quando si identifica la filosofia con il pensiero critico o la logica argomentativa, la si riduce a una mera tecnica del ragionamento, a una sorta di ancella della conoscenza, priva di un proprio nucleo contenutistico”.

Quindi non la filosofia come l’abbiamo conosciuta sui banchi di scuola…

“Certo che no, l’approccio teorico che il Ministero sembra al momento privilegiare è quello della Philosophy for Children che, nel solco del pragmatismo americano, propone un’idea della disciplina radicalmente diversa da come ce l’ha consegnata la nostra tradizione, spostando il centro di interesse dai contenuti e dalla loro storia, al metodo, alla teoria e alla pratica del ragionamento.”.

È il far filosofia senza i filosofi che approfondisci nel tuo primo libro, “I bambini e la filosofia”. Ricordo che quando ne abbiamo parlato qui su OS la reazione della Philosophy for Children è stata veemente. Si è evoluto il vostro rapporto da allora?

“Ultimamente ho avuto occasione di incontrare alcuni dei loro rappresentanti più importanti a Bologna nel corso di un convegno internazionale, organizzato dal gruppo di ricerca “FarFilò”, proprio sulla filosofia e i bambini. Il confronto è stato molto più disteso, c’è stato uno scambio franco, abbiamo discusso sui punti in comune, anche se restano distanze marcate dal punto di vista metodologico. La P4C ha, a mio avviso, una componente interna di pedagogisti che la condiziona fortemente, e io ancora non riesco a spiegarmi bene perché noi, con 2500 anni di filosofia europea alle spalle, dobbiamo andare a pescare un paradigma educativo in Dewey o Lipman”.

Che cosa ci attira tanto di questi filosofi?

“Probabilmente rispondono meglio alla nuova visione didattica: diminuire il tempo passato sui libri e dare l’illusione di saper fare qualcosa con quel poco che si è appreso. Il segreto del loro successo, relativo alla didattica filosofica, è nell’idea che si possa fare filosofia semplicemente imparando un metodo, in questo caso quello di Lipman. Per questa ragione, credo, il MIUR ha adottato la P4C come modello educativo da introdurre alle elementari, perché si inserisce nella prospettiva più ampia, a quanto pare dominante al momento nelle stanze nel Ministero, secondo cui la formazione è un periodo di addestramento a semplici tecniche di sopravvivenza nel futuro mondo del lavoro. E diciamo che se la prospettiva è questa, in effetti la filosofia è più facilmente manipolabile rispetto alle altre discipline, che hanno un nucleo contenutistico apparentemente più forte”.

Non c’è stata resistenza da parte dei filosofi italiani e delle varie consulte universitarie?

“Penso che ormai a chi si occupa di filosofia all’interno dell’università non interessi più molto chi o che cosa si studi all’interno dei programmi di filosofia nelle scuole. Oppure, dove questo interesse si manifesta, sembra esprimere una consonanza di fondo con la visione delle competenze, come dimostrano le proposte di manualistica scolastica degli ultimi anni”.

È un disinteresse che però mette a rischio la sopravvivenza stessa della disciplina e l’autonomia di chi fa ricerca in questo ambito.

“Sono d’accordo, se l’insegnante di filosofia in realtà diventa un facilitatore, ecco un buon motivo per espellere la storia della filosofia dai programmi della scuola, come in effetti succede in molti altri Paesi. Se nelle ore di filosofia si sta in classe solo per aiutare i ragazzi a ragionare, o a sviluppare il pensiero critico – altro concetto che assomiglia sempre di più a una formula magica in cui può rientrare di tutto -, allora si può a buon diritto prescindere dall’apparato storico della filosofia, ossia prescindere dai filosofi e dai movimenti filosofici. Se queste non sono più conoscenze da trasmettere agli studenti, perché dovrebbe possederle l’insegnante? In questa prospettiva, non serviranno più filosofi per insegnare la filosofia, basteranno dei tecnici della discussione o del ragionamento”.

Come si dovrebbe insegnare la filosofia nelle scuole?

“Nei miei libri spiego quello che faccio durante le mie ore di lezione con i bambini – sebbene poi alcuni passaggi li ripeta anche con i miei studenti di liceo, riadattandoli ovviamente all’età e al contesto -, ma non ho nessun pacchetto da vendere e nessun metodo precofenzionato da promuovere. La base della lezione è il vissuto filosofico del docente, ossia quello che per lui ha significato il suo incontro con quella particolare teoria o con quel particolare filosofo. La filosofia è una narrazione, una rielaborazione, una trasformazione, una interpretazione, e non semplice comunicazione. Il mio metodo, se così vogliamo definirlo, può rappresentare una sorta di perimetro dentro il quale muoversi il più liberamente possibile, in cui rimane centrale la sensibilità filosofica del singolo docente. Se vogliamo comunque individuare dei criteri oggettivi, possiamo considerare: l’aspetto narrativo della lezione (presentare sia il filosofo che le sue idee nella forma di un racconto), lo spazio dato alle domande dei bambini, la presentazione dell’idea filosofica per gradi, facendo intervenire i bambini nella costruzione del concetto filosofico attraverso le domande (si possono trovare esempi di questo modo di procedere in alcuni box della seconda parte del libro “I bambini e la filosofia”)”. Di base, con i miei studenti di liceo applico lo stesso procedimento, a cui aggiungo un lavoro sistematico sui testi dei filosofi – che ai bambini veicolo perlopiù attraverso i racconti -, perché ritengo che, alle superiori, lo studente debba arrivare a studiare filosofia leggendo direttamente i filosofi, per quanto questo possa spesso essere un esercizio ostico e talvolta avvilente, soprattutto quando non si riesce a penetrare nella comprensione del testo. Tuttavia, è qui che l’insegnante deve di nuovo intervenire per accompagnare lo studente nella lettura ragionata del testo, avendo come obiettivo non la sua comprensione tout court, ma il miglioramento graduale, diverso da studente a studente, del livello di comprensione.

Questo è un lavoro lento… tu che idea hai della scuola? Riallacciandoci a quanto abbiamo detto poco fa, molti pensano che dovrebbe adeguarsi alla velocità dei cambiamenti sociali ed economici, mentre il suo indugio sull’analisi e sulla riflessione le viene continuamente rimproverato.

“È un’idea che contesto radicalmente, è giusto che la scuola continui a essere il luogo dove tutto rallenta, una sorta di pausa di riflessione dalla frenesia del quotidiano; se insegue le trasformazioni, non le comprende più e soprattutto non le orienta. Leggere e capire una pagina di Cartesio o di Kant è l’atto più rivoluzionario che un docente e uno studente possano compiere insieme, senza che poi segua a tutti i costi un debate! Non condivido l’idea – di matrice anglossassone, non certo classica – di una filosofia come luogo della discussione democratica: prima di mettere in discussione qualche pensatore, devi conoscere profondamente le sue idee, devi pensare come lui, con la sua testa (per imparare poi a pensare con la tua). Solo così puoi individuarne i punti deboli che, tra l’altro, non sono propri del pensatore, quanto del pensiero stesso, ossia dei concetti”.

La discussione oggi sembra essere il cuore della didattica, in attesa che cadano definitivamente tutti gli steccati disciplinari e si facciano tanti bei debate sugli argomenti del giorno.

“Discutere di qualcosa che non si conosce in maniera approfondita, senza idee forti alla base, non è né un’attività didattica né tanto meno un’attività di ricerca, è uno scambio di opinioni, ma da Parmenide e Platone in poi le opinioni non godono di buona reputazione in filosofia”.

È una buona sintesi se diciamo che lavori a un rovesciamento di prospettiva? Da ultimo anello della produzione del sapere, la didattica riconquista un ruolo centrale liberandosi di tante sovrastrutture. Potrebbe funzionare con altre discipline?

“Più che di un rovesciamento, parlerei di un cambio di prospettiva: la scuola – soprattutto i licei – non deve essere il luogo della preparazione all’esistente, che poi concretamente significa preparazione al lavoro e, quindi, ai lavori più richiesti, motivo per cui alcune discipline vengono considerate più importanti di altre. La scuola, invece, deve diventare lo strumento per riflettere sull’esistente. Una riflessione che non deve assumere per forza le forme di una contestazione, né di una quieta accetazione, ma deve mantenersi sul livello di un’analisi critica e spregiudicata. In questo senso, la filosofia è per sua natura il luogo privilegiato di questa analisi, perché è vero che nasce dalla meraviglia di fronte al mondo, ma è una meraviglia che non si limita a restare a bocca aperta, che domanda sul perché e sul come di questo mondo. Ciò non toglie che questa riflessione non possa attraversare anche le altre discipline su questo bisognerebbe però ascoltare i docenti di altre discipline. Sarebbe interessante aprire una discussione più ampia in merito, chissà che proprio Orizzonte Scuola non possa diventare il luogo di questa discussione, vista la sensibiltà e l’attenzione che dimostrate per queste tematiche.

Perché non proponi laboratori di filosofia anche alle scuole medie?

“In realtà sto lavorando proprio a questo nuovo progetto, anche perché ho ricevuto diverse richieste da docenti di scuole medie negli ultimi tempi. Ai ragazzi di quella fascia di età, però, sto pensando di presentere i filosofi ellenistici, i primi esistenzialisti della storia, ossia i primi che hanno elaborato in maniera sistematica una filosofia come stile di vita, che fosse in grado di rilfettere sulla singolarità umana, sui suoi problemi quotidiani e le sue ansie esistenziali. Qualcosa che ciascuno di noi inizia ad avvertire proprio nel passaggio di età che caratterizza la preadolescenza. In questa prospettiva, sarebbe facile unirvi la riflessione dei pensatori classici cinesi – su cui lavoro già alle elementari – che fin da subito hanno visto la filosofia come un pensiero che deve essere dotato di un’efficacia pratica, prima ancora che teorica. Questo sempre per mantenere aperta quella visione interculturale o geo-storica della filosofia, che per me rimane un asse portante del mio lavoro di insegnante e studioso”.

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