Insegnanti, dissimulare il disagio porta a somatizzazione ed esaurimento

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Mi succede spesso di ricevere un’insegnante che chiede un appuntamento urgente perché sta male, non ce la fa più e vorrebbe abbandonare la scuola.

Tuttavia, arrivato il giorno della visita, prima di parlare del proprio malessere, la docente precisa che lei è “stimata dai colleghi, apprezzata dal dirigente scolastico, ammirata dagli alunni, gradita dai genitori” e via discorrendo. A questo punto pongo la domanda rivelatrice: “Qualcuno dei colleghi è a conoscenza delle sue reali condizioni di malessere?”. La risposta, che anticipa solitamente un pianto liberatorio è “Assolutamente nessuno. Guai se si sapesse!”.

Dietro questo teatrino si nasconde uno dei più subdoli e potenti segni del disagio mentale professionale degli insegnanti: la dissimulazione. Questa a sua volta è figlia dell’incapacità di condividere con i colleghi i problemi che hanno origine nel rapporto docenti-alunni tipicamente asimmetrico e unidirezionale. Quando il rapporto professionale è perennemente asimmetrico e intergenerazionale si avrà come fisiologica conseguenza un’estrema difficoltà nello sviluppare relazioni tra pari. Molti insegnanti negano questo dato di fatto sostenendo di intrattenere buoni rapporti con i colleghi, ma la condivisione è ben altra cosa rispetto alle sole buone e formali maniere. Ciò che manca è la relazione da contubernium tra legionari, il cameratismo, la complicità prima della “battaglia soli contro tutti”, che fa scartare a priori la dissimulazione, poiché è in gioco la vita, che viene assai prima dell’immagine.

Fa male leggere nelle risposte dei questionari – somministrati ai docenti nei corsi di formazione sul burnout – che l’evento più stressante dell’attività professionale è “il rapporto con i colleghi”, quasi si trattasse del vero nemico da cui difendersi. Diviene perciò difficile dismettere i panni del professore e intrattenere un rapporto fra pari, anzi tra professori. E’ certamente più semplice tenere l’altro (il collega) a giusta distanza, fingendo di non aver bisogno di nulla, fino a dissimulare il proprio disagio che presto o tardi si farà vivo maggiorato.

Scrive Alessandra che ha partecipato a uno dei tanti miei corsi di formazione: Ogni suo passaggio, stamattina, raccontava il mio stato: ho taciuto, e avrei voluto scomparire. Se avessi pianto avrei interrotto infatti la mia dissimulazione. Sono rientrata in classe, dunque,  dissimulando entusiasmo, passione ed energie, di nuovo in attesa di uscire da questa non vita. La voglia di raccontare è tanta…”.

Alessandra ha capito che stava dissimulando, ora le basta vedere i colleghi intorno e capire che hanno la stessa necessità di parlare, ascoltare e soprattutto condividere per difendersi dal disagio mentale professionale.

Scrive Anna: “Il corso è stato così diretto e di facile fruizione dall’avermi aperto un mondo che temevo di scoprire. Credo di essere vittima di burnout e assumo ansiolitici. Da un anno soffro di attacchi di panico e ansia con sbalzi d’umore importanti e sono in cura da una psichiatra/psicoterapeuta. Poiché questo stato di apatia ha colpito tutti gli ambiti della mia vita, oltre che quello scolastico, abbiamo finora sperato fosse momentaneo e non determinante per le mie condizioni professionali. Si spera che gestendo la depressione a tutto tondo si possa migliorare anche la mia condizione a scuola. Ho sempre svolto il lavoro con un entusiasmo travolgente, quasi teatrale. L’anno scorso ho fatto un anno durissimo con qualche sporadico attacco di panico in classe (ma numerosi fuori), gestiti più o meno bene. Ho continuato le cura durante l’estate e sono rientrata un po’ più carica ma, più si avvicinavano i giorni del rientro, più i malesseri si presentavano numerosi: inappetenza, sonno disturbato, ansia e tachicardia. Se solo penso di tornare a scuola mi viene la nausea con conati di vomito. Penso al chiasso, ai casi difficili e mi sento persa: non so più cosa fare. Si può guarire? O forse semplicemente trasferirmi o abbandonare un lavoro che non amo più? Ho tanta paura”.

La testimonianza di Anna non colpisce tanto per la sua originalità, quanto per il suo isolamento. La ricerca della soluzione non è operata nell’ambiente di lavoro, dal quale l’insegnante tende semmai a fuggire, e nemmeno tra i colleghi, sottoposti alla medesima usura psicofisica professionale. Lo specialista psichiatra/psicoterapeuta, gli psicofarmaci a dosi crescenti, il trasferimento in altra sede o le dimissioni non potranno mai essere l’unica risposta a una professione coinvolgente e unica nel suo genere.

In famiglia (prima agenzia educativa) il rapporto genitori-figlio è sempre 2:1, mentre a scuola (seconda agenzia educativa) è 1:25 a sfavore del docente che resterà nel suo splendido isolamento a meno che non decida di condividere le sue esperienze coi colleghi avviando quel difficile ma indispensabile rapporto tra pari cui non è avvezzo.

Siamo all’inizio dell’anno scolastico ed occorre sapere quali sono i giusti strumenti ai quali ricorrere per affrontare l’altissima usura psicofisica professionale. Ricorrere alla dissimulazione, anziché alla condivisione tra colleghi, non porta che ad accrescere il proprio disagio mentale professionale.

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