Insegnamento lingua italiana, necessario farla amare. Petizione Gruppo di Genova “la lingua è tante cose”

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Veder arrivare i bambini, il primo giorno di scuola è un’emozione: occhi speranzosi, curiosi, timorosi rispetto al mistero di un potere da cui, fino a quel momento, sono stati esclusi: il potere della parola scritta, il potere dei grandi.

Per loro, quelle parole sono conosciute come istruzioni per entrare in un mondo di possibilità attraverso un tocco delle dita, un apriti Sesamo, sullo schermo luminoso di un cellulare, oppure si presentano come misteriosi segni che portano, su fogli di carta, racconti di mondi fantastici; o ancora, questi magici segni accompagnano i loro passi, con ghirigori che ricoprono i muri delle città ed occupano le insegne dei negozi.

Per alcuni, quelle parole rappresentano uno dei segni dell’esclusione: i suoni non sono più quelli in cui sono stati immersi fin dalla nascita, ma altri, strani e incomprensibili e bisogna impararli perché quello è il nuovo mondo in cui si vivrà.

Appena bebè, si abituano ad interloquire con un mondo virtuale d’immagini, segni, musiche, mondo nel quale molti adulti sono immersi senza consapevolezza.

La lingua ha cambiato faccia: va a braccetto con immagini, suoni, segni. Le regole di funzionamento del sistema scolastico hanno cambiato faccia: fino al 1962 arrivavano alla scuola media solo alcuni (quelli che avevano fatto l’esame d’ammissione). Per gli altri c’era l’avviamento professionale: i destini sociali si decidevano a 10 anni.

Le classi hanno cambiato faccia e rappresentano uno spaccato delle complesse trasformazioni in corso. Lingue diverse convivono producendo strambe mescolanze volte ad ottenere uno scopo: comunicare, capirsi.
Il mondo ha cambiato faccia.

Il modo d’insegnare è spesso rimasto lo stesso e gli insegnanti sono stati lasciati soli ad affrontare il cambiamento. L’insegnamento della lingua riveste un ruolo particolare perché è lo strumento principe della nostra identità, che ci permette di riconoscerci e conoscere il mondo in cui siamo immersi, entrare in un universo di segni che consente agli uomini la grande magia di saper evocare cose anche in loro assenza.

Dire la prima parola, dopo mesi d’ascolto non orientato da conoscenza alcuna rappresenta il primo emozionante ingresso nel mondo dei simboli, dello stare per che fa sì che, ad esempio, quel gruzzoletto di suoni della parola “gatto” stia al posto del felino anche in sua assenza.

Insegnanti e genitori sono testimoni e stampelle di questa lunga marcia dei bambini verso i significati e noi stessi continuiamo, da adulti, a trasformare il nostro universo di senso, sottoponendolo a critica più o meno esplicita, attraverso esperienze, anche dolorose, che ci rendono quello che siamo.

Quale perverso meccanismo riesce ad allontanare i bambini da questo mondo in cui, nel giro di pochi anni, attraverso la motivazione, l’implicito confronto di diversi modelli di parlato, sono passati dal pianto come espressione unica di tutti i bisogni alla capacità di esprimere sentimenti positivi e negativi, alla capacità di chiedere, raccontare, immaginare…? Cosa riesce a trasformare questo percorso d’attribuzione di senso, questa apertura al mondo in silenziosa resistenza, urlante opposizione o triste adattamento?

È possibile pensare ad un insegnamento della lingua che, attraverso esperienze significative appositamente predisposte dai docenti o nate da motivanti situazioni educative possa far nascere, accompagnare e sviluppare una consapevolezza dei meccanismi di funzionamento della lingua?

La lingua è tante cose.

È, prima di tutto, la nostra caratteristica di specie. Solo noi umani siamo in grado di produrre simboli, maneggiarli, usarli per esprimere bisogni, sentimenti, intuizioni, paure, desideri.

È in grado, insieme al corpo ed anche separatamente, di metterci in contatto con gli altri umani; ci consente di trovare accordi, esprimere opinioni differenti, raccontare avvenimenti del presente e del passato, formulare ipotesi e previsioni rispetto al futuro.

È possibile mantenere la passione per l’apprendimento dei diversi linguaggi e della lingua, ampliandone il campo d’azione alla scrittura ed alla lettura? È possibile non trasformare la curiosità infantile in deprimente adattamento, attraverso la valorizzazione della scoperta, il rapporto tra cultura e vita, la possibilità di sbagliare, mantenendo la voglia di continuare a provare, non avendo paura delle conseguenze dei propri dubbi, incertezze, opinioni?
Sì è possibile e necessario.

Dice Heinz von Foerster: “i bambini…ci pongono le domande più strane e più imbarazzanti. Sono creature meravigliose, impossibili da prevedere, ma se li si manda a scuola, verranno resi banali. Il nostro sistema educativo – almeno in America – è veramente un apparato di banalizzazione, e noi tutti (e i nostri bambini) ne possiamo vedere le conseguenze.”

Proviamo allora ad indicare alcuni punti di orientamento che possano aiutarci ad effettuare scelte di politica educativa necessarie per rispondere a questi problemi.

Di cosa ha bisogno la scuola?

–    d’aiutare gli alunni a non diventare analfabeti comunicativi in grado d’entrare nell’universo dei linguaggi solo come consumatori passivi, incapaci di capire le sottigliezze manipolative celate nelle comunicazioni di massa o nelle forme contemporanee della lingua scritta parlata degli sms
–    di far desiderare di parlare all’altro, di confrontarsi con idee diverse dalle proprie
–    di confrontarsi con i punti di vista altrui, ponendosi domande e imparando a cogliere analogie e differenze tenendo conto dei contesti, degli scopi, della storia individuale e sociale
–    di far crescere la capacità di fare ipotesi, senza ipersemplificare i problemi
–    di far conoscere e utilizzare le meraviglie della narrazione e la loro straordinaria capacità di farci vivere mille vite
–    di rendere gli alunni capaci d’interpretare un testo, cogliendo la gerarchia delle informazioni, individuando i passaggi senza i quali la ricostruzione risulterebbe insufficiente, imparando a costruire una fondamentale capacità sintetica, spesso umiliata da pratiche di riassunti prive di destinatari, contesti e scopi.

Ancora una domanda: è importante che i bambini della scuola primaria imparino le regole di funzionamento della lingua? Si, certamente.

Non parliamo di una lingua immutabile, eterna con il suo apparato di regole inviolabili. La lingua è viva e cambia con il cambiare dei bisogni, delle condizioni, della tecnologia, della mobilità dei popoli.
Sono in gioco non solo questioni di h o di doppie, ma le basi stesse del significato della cultura, dell’identità, dell’appartenenza.

Nessuno mai ha imparato a parlare e scrivere correttamente a partire dalle regole grammaticali, morfologiche e sintattiche: esse rivestono importanza quando è necessaria una metariflessione sulle strutture dei linguaggi. L’ esperienza di manipolazione e riflessione sulle regole di funzionamento dei linguaggi può essere condotta in modo motivante e fornire poteri di comprensione della lingua solo se non si è trasformata in semplice subalternità e ottemperanza.

Conta, nella scuola, consentire agli alunni di provare, sbagliare, rendendo l’errore un’occasione di riflessione, confronto e non la base per un controllo punitivo che ha come unico esito lo spegnersi del desiderio di provare.

Forse è il caso di ricordare che l’obbedienza alle regole, separata dalla critica e dalla responsabilità ha prodotto delle vere e proprie catastrofi. “Io ho semplicemente obbedito agli ordini ricevuti” dicevano i nazisti sul banco degli imputati dopo la caduta del Terzo Reich.  Anche i mafiosi obbediscono ad un loro codice d’onore.

Allora è questa l’obbedienza che vogliamo, un’obbedienza che non conosce la capacità di pensare criticamente, di far uso della capacità di riflettere e scegliere cosa dire o tacere sulla base di destinatari, scopi, contesti? Tutto questo non s’impara soltanto obbedendo, ma amando la lingua, desiderandola per usarla, come dice F. Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca, in tutta la sua meravigliosa potenza.

I bambini sono capaci di sacrifici straordinari quando fanno esperienze dotate di senso.

Imparare ad imparare non è una formula vuota; è ciò che rende gli umani “vivi fino ad un secondo prima di morire” come ricordava Monsieur de La Palice.

Certamente tutto questo problematiche vanno affrontate con la necessaria gradualità, ponendo solide basi per uno sviluppo che va articolato pensando al percorso di crescita dai 3 ai14 anni, (percorso di cui troviamo ampie tracce nel documento delle Indicazioni Nazionali) e richiedono serie riflessioni sulla formazione degli insegnanti, sulle didattiche in grado di rispondere a domande nuove e vecchie, sui meccanismi di reclutamento e sulla formazione in servizio.

…ma come Gillo Pontecorvo fa dire ad un suo personaggio in Queimada: “è meglio saper dove andare e non sapere come fare che sapere come fare e non sapere dove andare”.

Abbiamo una grande eredità culturale da trasmettere ai nostri alunni e solo se sapremo farla camminare con le nuove sfide che un mondo fattosi così complesso ci pone, saremo in grado di sostenere l’importanza e la necessità di una scuola pubblica come diritto per tutti.

…e infine un grazie a tutti quegli autori che ci hanno appassionato alla linguistica, alla semiologia, alla narratologia e, comunque, alla lettura e alla scrittura, al cinema, alla musica, alla danza ed al teatro e ai tanti linguaggi umani…

… e un grazie ai molti bravi maestri che vivono nell’anonimato di un lavoro che trova il suo senso nella passione che gli alunni tutti (in gamba e meno in gamba, italiani e stranieri, di buona e meno buona famiglia) manifestano per una scuola di base e una cultura che non ha detto loro “No, tu no”.

A loro il nostro più sentito ringraziamento.

Il Gruppo di Genova
I. Ottazzi, G. Mazzetti, E. Tramelli, G. Bottero, R. Damasio, R. Ferrarini, C. Micali, M. Nobili, P. Ragusa, A. Roncoroni, E. Sciutto

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