Inglese a scuola, 13 anni di studio e gli alunni non sono bilingue. Perché?

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Imparare l’inglese per bene. E’ questo il consiglio dell’anno di Sette, il supplemento del Corriere della Sera, diretto da Beppe Severgnini.

Dalla musica ai film in lingua originale

Nell’articolo di copertina scritto da Chiara Severgnini, fa notare Beppe Severgnini, si mette bene in risalto che la scuola fa la sua parte, “ma le occasioni per imparare sono  dovunque. I viaggi. I videogiochi. I social. Il teatro. La possibilità di selezionare lingua e sottotitoli su Sky e Netflix”.

Il direttore, nel ricordare che lui da anni scrive in inglese regolarmente per giornali britanni e americani, fa notare che l’inglese è diventato ubiquo. Vuol dire che può essere imparato, oggi più che mai, in mille modi: dalle canzoni, all’uso delle piattaforme, dai social ai contenuti offerti in lingua originale.

Inglese a scuola, poco efficace

Eppure a ben leggere l’articolo si scopre che non è proprio del tutto vero che la scuola faccia la sua parte o almeno non la fa in maniera del tutto funzionale.

Secondo Bruna Di Sabato, professoressa ordinaria di didattica delle lingue presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, il livello di inglese raggiunto dagli alunni di oggi è superiore a quello degli alunni del passato, ma gli attuali diciottenni studiano inglese sin dalle elementari, quindi il loro livello di inglese dovrebbe essere quello di un bilingue. Invece, non è così.

L’esperta fa notare che “la formazione data a scuola non impatta quanto dovrebbe” e critica il fatto che la lingua non venga insegnata in maniera funzionale al suo uso comunicativo sacrificato a quello grammaticale.

Piccoli progressi

L’articolo riporta anche alcuni dati. Secondo l’English Proficiency Index, l’Italia è al 34° posto per livello di conoscenza della lingua inglese su 88 paesi, è ventiquattresima a livello europeo, ha fatto registrare un miglioramento dell’1,58% sull’anno precedente. Gli italiani sono consapevoli dell’importanza della gestione della lingua inglese anche come strumento di lavoro e di maggior qualificazione professionale. E qui si torna di nuovo alla scuola.

“Negli ultimi cinque anni – scrive Chiara Severgnini – circa quattro mila docenti hanno completato la loro formazione Clil, che è linguistica e metodologia”. In pratica, non si tratta di tradurre in inglese il metodo classico della lezione frontale, ma di un nuovo innovativo.

Il metodo Clil

Clil è l’acronimo di Content and Language Integrated Learning e significa letteralmente “apprendimento integrato di contenuto e lingua”, un metodo che ha dato buoni risultati in altri paesi come Spagna Olanda. “Ma per i professori che si imbattono in questo intenso percorso – scrive ancora Chiara Severgnini – non è prevista né una gratificazione economica, né uno scatto di carriera, né una quota significativa di punti extra da spendere nelle graduatorie”.

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