Il Sindaco Mimmo Lucano come Antigone e i limiti della democrazia: “Giustizia e mito” di Luciano Violante e Marta Cartabia

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Una nuova proposta editoriale del Mulino ci aiuta a mettere a fuoco le somiglianze tra conflitto tragico e conflitto giuridico.

La vicenda del Sindaco calabrese che ha infranto alcune norme del nostro ordinamento per preservare il modello di accoglienza e di integrazione dei migranti creato nel piccolo borgo di Riace sta agitando da qualche giorno la coscienza sociale – segnalandosi anche all’attenzione internazionale – e ha ridestato senz’altro nella mente di tanti la straordinaria tragedia sofoclea di Antigone, interamente costruita sul duello tra coscienza individuale e ragion di stato, tra legge morale e legge positiva, tra lex e ius (qualcosa di molto interessante ha scritto in questi giorni Mattia Feltri sul “Fatto Quotidiano”).

Lo stesso parallelismo dà a noi il modo di segnalare un piccolo saggio appena pubblicato dal Mulino, “Giustizia e mito” scritto da Luciano Violante e Marta Cartabia, le cui pagine offrono una rilettura persuasiva dello stesso dramma (cui si affianca quello di Edipo) rinvenendo all’interno di esso non solo un conflitto continuamente riaffiorante nelle nostre società, ma anche il tentativo della sua ricomposizione, ovvero il modello del processo costituzionale. Tra le qualità più importanti che possiamo segnalare, senz’altro la chiarezza espositiva e la naturalezza con cui si riescono a tracciare punti di contatto tra passato e presente, caratteristiche che rendono l’opera particolarmente adatta anche al pubblico delle scuole.

La giustizia come lacerazione

Ma che cosa c’è di nuovo nell’opera dei due giuristi che già non sia stato detto da autorevoli filologi, storici o antropologi del mondo antico? Oltre ai pregi che abbiamo elencato prima, c’è la cosa più importante di tutte, un afflato civico che aiuta a focalizzare il passaggio epocale da una idea primitiva di giustizia a una idea razionalizzata, positiva, che pure “continua a lasciare un che di incompiuto, un senso di insoddisfazione, una lacerazione non del tutto rimarginata. I conti non tornano mai, né per le vittime né per i colpevoli” (p. 49). Un’impresa niente affatto semplice, se pensiamo alla difficoltà di padroneggiare la grammatica complessa di richiami e citazioni agli studi epocali sulla figura dei due eroi tragici, ma che riteniamo riuscita su tutti i piani nel monito continuo che tornare classici significa tornare a riflettere sui limiti della democrazia anche in relazione alle istituzioni contemporanee, visto che è in queste che l’amministrazione della giustizia, emancipata dal primitivo nucleo vendicativo, trova il suo percorso di inveramento.

Edipo e la giustizia imperfetta

Edipo, che uccide suo padre e va a letto con la madre, ci aiuta a riflettere sul paradosso fondamentale: il mondo e l’uomo chiedono giustizia, ma la giustizia intransigente trasmoda in violenza e nega se stessa, ecco perché ha bisogno della prudenza ed ecco perché essa si esercita nei nostri tribunali secondo i principii di proporzionalità e di ragionevolezza. Un giudice non può conservare l’ostinazione di Edipo, ma sa che di necessità la giustizia è imperfetta, “imperfetta di quella imperfezione che non è debolezza, ma piuttosto espressione di un’ultima modestia che si apre a qualcosa d’altro da sé e in questa faglia trova tutta la sua forza” p. 54.

“Quale via per scongiurare l’errore giudiziario derivante da una conoscenza inadeguata, parziale e perciò falsa dello stato delle cose?” si domanda ancora Cartabia a p. 73; la risposta è offerta dal testo sofocleo, che mette in scena l’hamartema di Edipo nella tracotanza con cui crede, da solo, di poter conoscere la verità, senza perciò ricorrere al prisma della ragionevolezza che, invece, dovrebbe indurlo a incrociare gli sguardi. Edipo è stato bravo, ha liberato Tebe dalla Sfinge, non manca sul piano della morale, manca sul piano della conoscenza. Eccolo il suo dramma magistralmente riassunto così: “Ambisce a grandi cose, eppure è imperfetto nel conoscere, prima ancora che nel decidere” (pag. 60).

Antigone e il conflitto tra due ragioni

Antigone, invece, offre il paradigma della contrapposizione tra il potere dello Stato e il diritto del singolo, tra le esigenze della polis – il nuovo diritto – e la legge antica dei vincoli familiari, nomos contro ghenos: “Come la legge e la sua contestazione non sono scindibili l’una dall’altra, così non sono separabili Creonte e Antigone. […] Lo scontro, infatti, nella tragedia di Sofocle, non è tra una ragione e il resto del mondo, o tra una ragione e un torto […]: il conflitto è tra due ragioni. La ragione di Creonte, ‘con queste Leggi farò crescere la città’, non è in astratto meno valida dell’altra […]. Tra le contraddizioni e le mediazioni quotidiane dell’uomo di governo e la lineare certezza del suo oppositore, l’immaginazione è certamente attratta da quest’ultimo. Il primo appare eternamente in bilico tra la necessità, la possibilità e l’opportunità; il secondo mostra sfolgoranti certezze e lineari soluzioni” (p. 108).

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