Gruppo V.I.Ph.D: La nostra proposta per il reclutamento scolastico. Lettera aperta

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Inviato da Gruppo di dottori di ricerca – Problema: una nuova didattica della distanza? L’emergenza sanitaria che stiamo attraversando si è abbattuta su tutte le strutture del Paese come un massiccio e impietoso stress-test generale: dalla sanità al welfare, dalla politica all’economia, dal mondo del lavoro a quello della scuola.

Per nostra fortuna, queste realtà sono riuscite in qualche modo a resistere all’onda d’urto dell’impatto iniziale, non sono crollate, ma il persistere della pressione ha rivelato tutte le debolezze e inadeguatezze dei rispettivi sistemi di organizzazione e gestione, che infatti in alcuni settori sono venuti meno.

È il caso, ad esempio, della scuola, la cui infrastruttura è stata colta impreparata di fronte all’urgenza di trovare alternative valide alla didattica in presenza, sia dal punto di vista dei contenuti che da quello dei rapporti e delle metodologie. La didattica a distanza ― dapprima proposta su base volontaria (e quasi come sostegno psicologico a studenti e famiglie), poi caoticamente autogestita dai singoli istituti, successivamente monitorata e infine resa obbligatoria ― ha imposto a molti docenti e dirigenti un improvviso balzo nel futuro e nella digitalizzazione. E mentre questa sarebbe, di per sé, un’ottima notizia (perché nel 2020 è lecito aspettarsi che chi lavora con i giovani sia anche al passo con la tecnologia), il dato allarmante è che non c’è stato il tempo di riflettere sui pro e i contro di questa pratica: senza dubbio utile per molti aspetti, solleva nondimeno importanti questioni di ordine logistico, tecnico e legale che sarebbe stato opportuno discutere prima di trasformare una soluzione emergenziale in prassi ordinaria. Tutto questo fa paura: quale sarà il prossimo passo? Siamo forse pronti a creare dei call center di insegnanti per la didattica a distanza? Sostituiremo la terza fascia con professori a chiamata pagati un misero tot per ogni videolezione? Vogliamo definitivamente rinunciare a garantire a tutti il diritto allo studio, abbandonando al loro destino i meno abbienti che non possono permettersi di acquistare uno o più dispositivi adatti alla didattica a distanza? Che fine farà la privacy di docenti e studenti, sottoposti a un costante controllo di connessione e al tracciamento completo delle proprie attività da parte di piattaforme che fanno un dubbio uso dei dati personali?

La bollitura dei sistemi di reclutamento

Per usare la metafora della rana bollita (che non riesce a fuggire per tempo da una pentola d’acqua se portata lentamente a ebollizione) elaborata dal linguista Noam Chomsky, se la “bollitura” della didattica a distanza si appresta a essere completa, il sistema di reclutamento è da un bel po’ di tempo arrivato a cottura e i vari governi non fanno che alimentare dei sistemi fallimentari da tutti i punti di vista.

La scuola italiana è retta da precari che si sono formati su studenti utilizzati tecnicamente come “cavie” (visto il presupposto argomentativo per cui prima di avere i fatidici tre anni di servizio non si può essere capaci di insegnare) e dei quali nessuno ha verificato le reali capacità ma che, dopo un bel numero di anni di precariato ed esperimenti metodologico formativi “sul campo” (ovvero sulle cavie di cui sopra), hanno comunque il diritto di pretendere una stabilizzazione prima della pensione. A maggior ragione se consideriamo che l’Italia sta agendo contro la normativa europea sul precariato nella pubblica amministrazione e rischia di incorrere in una procedura di infrazione su un principio da lei stessa posto, firmato e fatto riconoscere in sede europea.

La scuola richiederebbe l’individuazione e applicazione di un saldo principio meritocratico per regolamentare l’accesso al ruolo di docente, ma i più sembrano disinteressati all’argomento, a partire dai genitori stessi che osservano passivamente le vicende di insegnanti che vanno e vengono e accettano che i propri figli debbano spesso accontentarsi di contenuti frammentari, livelli qualitativi di insegnamento eterogenei, relazioni educative intermittenti e poco formative.

I concorsi pubblici e la fenomenologia del “Rischiatutto”

Questo principio meritocratico, così tanto sbandierato dalla coalizione che attualmente si trova alla guida del Miur, non può corrispondere al solito “concorsone”, in cui (al pari del famoso quiz televisivo) la fortuna di conoscere la risposta esatta su un micro-argomento nel vasto mare magnum del sapere che sostanzia una classe di concorso è considerata il metro efficace per stabilire se una persona sappia o meno insegnare.

La fenomenologia del rischiatutto è infatti espressione tipica di una politica che associa la professione pubblica alla vincita di una maxi lotteria, come se, una volta dentro l’apparato statale, il lavoratore non abbia da temere più nulla: non ha controllori né doveri, solo diritti da far valere. E ciò, sottintende il Governo, a differenza del “privato” in cui, viceversa, i diritti seppur presenti possono essere esercitati dal lavoratore solo a discrezione del datore di lavoro. Se così stanno le cose, se questo è ciò che pensano i governanti del pubblico impiego, allora è giusto complicare sempre di più la via d’accesso per il paradiso lavorativo al cittadino italiano, o almeno a coloro i quali non possono usufruire di qualche “aiutino” per giungere vincenti al traguardo (le vicende recenti di cronaca concorsuale diciamo “truccata” sono note a tutti, ma per chi volesse rinfrescare la memoria si consigliano, tra i molti libri sull’argomento, almeno quelli sulla “concorsopoli italiana” di A. Giangrande e quello sui baroni universitari di N. Gardini). Ecco perché bisogna aumentare a dismisura le probabilità che questa “vincita” sia strettamente legata ai guizzi della fortuna.

Per farsi un’idea concreta di questa lotteria, basta leggere il bando pubblicato da poco in Gazzetta Ufficiale per il concorso ordinario e vedere cosa debba fare, ad esempio, una persona laureata in lettere che voglia insegnare italiano-storia e geografia nella scuola secondaria di primo grado. Dunque, è giudicato un buon insegnante chi sappia superare anzitutto una prova preselettiva, ossia che sappia rispondere a una serie di quiz casuali su un’ampia gamma di esercizi logico-matematici (la risoluzione dei quali spesso richiede diversi minuti anche a ingegneri, informatici e matematici, figurarsi risolverli nel singolo minuto a disposizione per ogni domanda senza avere tale formazione specifica, e infatti non si vede perché tutti debbano essere esperti in quel settore), leggi e decreti scolastici (un lavoratore ha il diritto/dovere di leggere il suo contratto e con quali modalità si regola la sua attività lavorativa, ma non si capisce perché debba conoscere tutto a memoria!), sulla conoscenza della lingua inglese a livello B2 (è proprio necessario in questa primissima fase? e comunque perché solo l’inglese? il CLIL si potrebbe svolgere anche in altre lingue), sui fondamenti di pedagogia, psicologia, antropologia e metodologia didattica.

Unica categoria di domande giustificata, anzi sacrosanta, è quella della comprensione del testo: essendo l’Italia l’unico Paese civilizzato in cui l’analfabetismo di ritorno supera il 30%, e in cui gli adulti ― ben prima degli studenti ― non di rado hanno difficoltà gravi a comprendere il significato di un titolo, per non parlare di un testo minimamente complesso, sarebbe il caso che l’intera prova preselettiva fosse incentrata sulle competenze di alfabetizzazione: le più urgenti da testare ed esigere presso gli insegnanti e aspiranti tali!

Sia come sia, una volta superato il toto-quiz preselettivo inizia il concorso vero e proprio. Ma attenzione: non vi accedono tutti coloro che hanno raggiunto una qualche soglia minima di punteggio bensì, semplicemente, va avanti un numero di candidati pari al triplo dei posti disponibili (in quella regione per la data classe di concorso), più tutti quelli che hanno totalizzato il medesimo punteggio dell’ultimo degli ammessi. Ed ecco di nuovo il fattore caso o combinazione, come direbbe Totò: se il candidato capita in una tornata, diciamo, di “brocchi”, basterà una percentuale bassa o medio-bassa per accedere al concorso vero e proprio, mentre se capita in un gruppo di persone particolarmente dotate o fortunate potrebbe addirittura servire ben oltre il 90% se non il 100% di risposte esatte per passare alla fase successiva. Con buona pace delle anime belle che pensano che la preselettiva serva sul serio a dare una scremata meritocratica alla massa di candidati, facendo accedere al concorso davvero solo i migliori…

Veniamo dunque alle prove. La prima è un’unica domanda su ciascuna delle materie in cui si articola la classe di concorso. Sempre per il nostro esempio, si tratta di tre domande sui programmi di Lingua e letteratura italiana, storia e geografia. Nello specifico, solo per la letteratura (tralasciando per brevità i riferimenti alla lingua e alla critica letteraria, che pur ci sono!) al candidato si richiede (si cita dal bando) «di conoscere e di saper commentare, nel quadro di un profilo storico complessivo, testi significativi di varia epoca, riferibili ai diversi generi e movimenti letterari. In particolare, è richiesta la conoscenza approfondita dei seguenti autori e delle loro opere»: e qui parte un elenco che va da Dante fino a Natalia Ginzburg.

Conviene fermarsi perché il grado di assurdità di quanto letto è piuttosto elevato: quale persona conosce e sa commentare un qualsiasi passo da una qualsiasi opera che va dal 1300 al 1900? Sfido qualsiasi “esperto” o professore di letteratura italiana che insegni all’Università ad affermare che conosce, ha letto e sa commentare un qualsiasi passo preso a caso da un autore. Lo stesso discorso viene fatto, nel bando, per la storia e per la geografia. Il candidato cioè deve conoscere a menadito ogni avvenimento della storia e ogni aspetto della geografia europea dall’antichità ai giorni nostri. Superata questa prova di “tuttologia”, si passa al secondo scritto “enciclopedico”, in cui si deve dimostrare di conoscere i principali dibattiti teorici sulla pedagogia, l’antropologia, la psicologia e le metodologie didattiche. Infine, se si è usciti indenni anche da questa prova, ce ne sarà un’altra orale che sostanzialmente è un doppione dei due scritti già superati con qualche aggiunta, tanto per non lasciare nulla di intentato nella lucida opera di follia: «ha l’obiettivo di valutare il grado delle conoscenze e competenze del candidato nelle discipline facenti parte della classe di concorso, di verificare la conoscenza di una lingua straniera europea almeno al livello B2 del quadro comune europeo, nonché il possesso di adeguate competenze didattiche nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione».

Insomma, un buon insegnante è colui che ricorda con la precisione e la velocità proprie di un calcolatore elettronico il programma integrale di più esami normalmente afferenti a molteplici corsi di laurea. Sorge un dubbio sull’utilità di un siffatto insegnante, dato che basterebbe sostituirlo con un computer appositamente programmato su tutto lo scibile umano suddiviso per materie, al quale lo studente possa attingere con un click per ascoltare l’esposizione un argomento in programma.

Viene poi spontaneo un ulteriore interrogativo, circa la validità di quella certificazione rilasciata dallo Stato e chiamata laurea. Il MIUR sta affermando, cioè, che non si fida di ciò che esso stesso ha già testato e valutato, che nessuno dei laureati apprende davvero ciò che ha studiato a un livello alto e che il certificato di laurea (rilasciato dallo stesso MIUR) non attesta una reale conoscenza disciplinare. Per non parlare di chi possiede anche un Dottorato di ricerca, che, nella piramide dei titoli di studio, si colloca addirittura al vertice: il Dottorato, per il reclutamento scolastico, è considerato meno di un master comprato nelle decine di negozi on line di vendita titoli per incrementare i punteggi. Stando così le cose, è evidente la volontà del MIUR di puntare tutto sulla fortuna e di considerare un bravo insegnante un bravo fortunato. Chissà perché, invece, nelle Università il concorso per scegliere i candidati a qualsiasi livello (dai ricercatori ai professori ordinari) avviene tramite la presentazione dei titoli culturali e la discussione, tramite un colloquio, degli stessi.

Concorsi sì, ma non così!

Certo, i concorsi servono e sono previsti dalla costituzione, ma da nessuna parte è scritto che debbano per forza essere strutturati così. Basta fare un giro su internet per scoprire decine di articoli e documenti (depositati anche presso la biblioteca del Senato) che raccontano i sistemi di reclutamento europei e apprendere che il concorso pubblico, così come lo ha strutturato il MIUR ancora oggi, nel 2020, è stato abbandonato dalla gran parte dei Paesi, anche perché l’idea che ne sta alla base risale a una concezione nozionistica del sapere e degli argomenti ad esso collegati (che comunque erano molto più specifici e riguardanti solo le materie di insegnamento) tipica degli anni ‘40 del secolo scorso (in macroscopico contrasto con l’attuale dibattito e stile pedagogico incentrati sull’interdisciplinarietà, le abilità e le competenze, l’abbandono proprio del nozionismo, del sapere fine a se stesso, a favore invece di un saper-fare, della capacità di applicare la conoscenza alla vita, di collegare i saperi e le abilità) e, come scrive in un articolo riassuntivo Pino Patroncini (pubblicato sul sito del Comune di Bologna), questa forma di reclutamento non ha più retto in Italia già a partire dagli anni sessanta-settanta e neanche durante il periodo della sua «restaurazione (leggi 463/78 e 270/82) per i costi alti e i tempi lunghissimi dovuti all’ammassarsi di masse bibliche di concorrenti: in 18 anni dal 1982 al 2000 anziché 7 (come era previsto) se ne sono tenuti 3 per secondaria e infanzia e 4 per l’elementare».

Verso un altro metodo di reclutamento

Ma allora, si potrebbe infine obiettare, esiste un altro metodo per reclutare gli insegnanti?

Certamente, ma anzitutto si dovrebbe abbandonare la mentalità del rischiatutto e tornare a considerare lo studio e i titoli ad esso collegati (ed è grave che lo Stato stesso possa di ciò dubitare) per ciò che realmente sono e valgono, cioè attestati di una conoscenza effettiva delle discipline.

Cosa dovrebbe fare un bravo docente?

Dovrebbe saper trasmettere le conoscenze, le abilità e gli strumenti affinché esse vengano trasformate in competenze dai discenti. Il metodo più efficace (analogamente a quanto avviene per il reclutamento nei Paesi europei al di là delle Alpi) sarebbe quello di selezionare la classe docente anzitutto chiudendo definitivamente le terze fasce d’istituto, bacini di ristagno per una massa indistinta di persone e, di fatto, meri ammortizzatori sociali. Gli aspiranti docenti dovrebbero invece essere inseriti in percorsi annuali, selettivi in itinere e in uscita, che si occupino anzitutto di formarli nelle discipline in cui (per chi provenga dalle facoltà di Scienze della formazione) sono più carenti: antropologia culturale, psicologia, pedagogia e metodologia didattica. Una volta formati, sarebbero inseriti in graduatorie regionali (rinnovate e aggiornate ogni tre anni), in sostituzione delle vecchie terze fasce, e da qui i vari USR attingerebbero per le supplenze. Con la progressiva disponibilità di posti per il ruolo, questi docenti sarebbero chiamati in base al punteggio acquisito (per titoli culturali e di servizio) a svolgere l’anno di prova, al termine del quale superare un esame metodologico didattico che sancirebbe, insieme al giudizio dei tutor che lo hanno seguito durante l’anno, l’ingresso in ruolo del docente.

Covid-19: un reclutamento emergenziale come prova per il nuovo sistema di reclutamento

Se quanto testé esposto potrebbe costituire una buona pratica da adottare nell’immediato futuro, nella situazione attuale, date le misure restrittive per arginare il diffondersi del Covid-19, l’ipotesi attualmente prospettata dal MIUR per i concorsi ordinario e straordinario costituisce un serio pericolo non solo per le ragioni ideologiche ad esso sottese (che si è tentato di esplicitare) ma anche per il vero e proprio attentato alla salute delle migliaia di persone che si riverseranno nelle varie sedi concorsuali. Di fronte a questa situazione inedita occorrono soluzioni altrettanto inedite, capaci non solo di superare brillantemente l’impasse ma anche di traghettare il sistema di reclutamento verso una misura più idonea a formare seriamente, senza discriminazioni né lotterie, la classe docente. Per questa ragione consideriamo sensata una procedura straordinaria di reclutamento del personale scolastico da usare in emergenza per scongiurare un catastrofico inizio di anno scolastico con cattedre vuote e docenti pronti, preparati, ma bloccati fuori dalla porta.

Non l’ennesima sanatoria o messa in fila dei precari per mero voto di laurea e stagionatura di precariato, come da alcuni è stato detto e scritto, bensì una selezione per candidatura basata sulla valutazione di un lungo elenco di titoli culturali e titoli di servizio, riservata a chi abbia maturato almeno 36 mesi di servizio scolastico (valorizzazione dell’esperienza sul campo) o sia in possesso di altri titoli culturali che attestino la massima preparazione nell’ambito dell’insegnamento e della ricerca (valorizzazione del merito), ad esempio il possesso di un’abilitazione scolastica o il riconoscimento dell’appartenenza a un Settore Scientifico Disciplinare (che per lo Stato Italiano è la certificazione della massima competenza disciplinare possibile, valida anche a livello internazionale). Questa proposta è stata consegnata nelle scorse settimane alle OO.SS. e ai partiti di maggioranza e opposizione: l’auspicio è che sia presa in seria considerazione, come unica e vera alternativa sia all’espletamento dei concorsi in piena emergenza sanitaria e senza alcuna possibilità di prevedere tempi e modalità di svolgimento, sia allo spauracchio dell’ennesima, autentica sanatoria a-valutativa.

Ecco come funzionerebbe. In base alle candidature pervenute, si costituirebbe una graduatoria regionale straordinaria ed emergenziale per il reclutamento scolastico, a scorrimento ed esaurimento: i soggetti immessi in questa graduatoria andrebbero comunque in coda, per la chiamata all’anno di prova e quindi al ruolo, agli iscritti alle GM2016, GM2018, GAE. Questa graduatoria regionale straordinaria, inoltre, potrebbe di fatto andare a sostituire le attuali seconde fasce di istituto: tutti gli abilitati attualmente in seconda fascia potrebbero richiedere di entrare in questa nuova graduatoria straordinaria. Ovviamente sarebbe riconosciuto all’abilitazione un punteggio particolarmente alto.

Le chiamate per le supplenze avverrebbero quindi da questa nuova graduatoria e, accettando supplenze, ogni docente potrebbe incrementare il proprio punteggio e salire quindi nella graduatoria, ove rimarrebbe, anche una volta abilitato, in attesa della convocazione per l’anno di prova finalizzato all’immissione in ruolo.

I docenti inseriti in questa graduatoria avrebbero due modi per abilitarsi: durante l’anno di prova finalizzato al ruolo o in occasione della prima supplenza annuale accettata. In questo caso, durante la supplenza si seguirebbero anche attività di formazione (a distanza, in presenza o in modalità blended fra le due) e, al termine, si sosterrebbe un esame finale. Il superamento di tale prova e quindi il conseguimento dell’abilitazione darebbe diritto al riconoscimento del relativo punteggio (con un miglioramento della propria posizione nella graduatoria straordinaria).

Proposta di reclutamento emergenziale docenti scuola

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