Facebook e diritto di critica al datore di lavoro, se offensivo si rischia licenziamento

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Il caso di cui ora trattasi riguarda una vicenda accaduta nel settore privato, ma i principi come espressi dal Tribunale di Milano, con ordinanza del 1 agosto 2015, possono estendersi anche al settore del pubblico, non a caso tale provvedimento è stato diffuso dal sito dell ARAN.

Il caso di cui ora trattasi riguarda una vicenda accaduta nel settore privato, ma i principi come espressi dal Tribunale di Milano, con ordinanza del 1 agosto 2015, possono estendersi anche al settore del pubblico, non a caso tale provvedimento è stato diffuso dal sito dell ARAN.

Nel dicembre del 2014 un dipendente del settore privato riceveva una contestazione disciplinare dal seguente tenore: ““…la nostra Società è stata informata dell’esistenza di 3 foto pubblicate sul Suo profilo pubblico del social network Facebook scattate all’interno della nostra unità produttiva di *** e dei seguenti messaggi accompagnatori “come si lavora alla DATORE DI LAVORO ditta di merda”, “We papagal”.

Tali foto in due casi la ritraggono al centro, tra due colleghi, in posa non di lavoro, risultano scattate e postate in giorno e orario lavorativo (5 dicembre 2013, ore 19.39 – ore 19.49). Inoltre, abbiamo rilevato che in data 29 novembre 2013, dalle ore 20.54 in avanti, dal p.c. aziendale sito nel reparto Logistica sono stati effettuati vari accessi a siti Internet del tutto estranei all’attività lavorativa e nella quasi totalità siti di contenuto pornografico come da elenco allegato. In tale data e orari Lei era in servizio presso il Reparto Logistica e in possesso della chiave per accedere all’ufficio in cui si trovava e si trova il predetto personal computer. In relazione a quanto precede, possiamo legittimamente presumere: che Lei si sia fatto ritrarre all’interno del luogo di lavoro insieme a due colleghi e abbia anche ritratto tali due colleghi, in atteggiamenti non lavorativi, durante l’orario di lavoro; che abbia svolto, durante l’orario di lavoro, attività “ricreative” venendo meno agli specifici obblighi di eseguire la Sua prestazione, di diligenza,
correttezza e buona fede; che sia l’autore del riferito testo qualificativo in modo offensivo e dispregiativo della nostra Azienda e altamente lesivo dell’immagine aziendale, nonché l’autore della sua diffusione tramite il social network Facebook; che abbia effettuato, sempre in orari lavorativi, gli accessi ai siti Internet come da elenco allegato. Le contestiamo tutti i comportamenti sopra descritti, che, ove confermati, integrano, anche autonomamente considerati, gravissime violazioni di norme di legge e contrattuali e di basilari doveri”.

Il lavoratore, durante il processo, non ha ritenuto di fornire una versione dei fatti differente, né di individuare l’eventuale responsabile dell’intrusione nel profilo Facebook, ha dovuto ammettere: “le tre foto scattate e pubblicate sul profilo facebook sono state scattate sul posto di lavoro, ma durante una pausa caffè”.

Il Tribunale di Milano, rileva che “ Considerate nella loro estrinsecazione prettamente oggettiva, le condotte risultano di particolare gravità per essere, entrambe, un’evidente violazione dei più elementari doveri di diligenza, lealtà e correttezza. Sulla vicenda delle foto pubblicate su Facebook (scattate durante l’orario di lavoro, in circostanze di luogo e di tempo che provano l’allontanamento dal posto di lavoro e l’interruzione della prestazione), questo Giudice non ritiene di poter in alcun modo condividere le difese attoree. Senz’altro vero che le foto non sono state pubblicate sul sito dell’azienda e che le didascalie non recano il nome della società, ma, inserite nella pagina pubblica del ricorrente, esse risultavano accessibili a chiunque e, senz’altro, a tutta la cerchia
delle conoscenze più o meno strette del lavoratore: dunque, a tutti quei soggetti che, per essere familiari, colleghi o comunque conoscenti di DIPENDENTE, erano perfettamente in grado di sapere che l’espressione di discredito era riferita ad DATORE DI LAVORO s.r.l.

Contrariamente a quanto sostenuto in ricorso, peraltro, la frase “come si lavora alla DATORE DI LAVORO di merda”, lungi dall’essere semplicemente “inelegante o sconveniente” o un “intercalare di routine”, è a tutti gli effetti un’ingiuria idonea, per le modalità con le quali è stata manifestata, a determinare una lesione dell’immagine aziendale. Impossibile, poi, considerare la condotta una “reazione puramente emotiva che non costituisce grave offesa alla dignità”, in quanto non è stata allegata né dedotta alcuna particolare vicenda, nessuna particolare ragione di tensione che avrebbe potuto giustificare una “reazione” del dipendente o attenuare la gravità dell’episodio”.

Rilevante è anche la valutazione che effettua il Tribunale in merito alla affissione del codice disciplinare. Il Giudicante ha, dunque, ritenuto i fatti oggetto di contestazione idonei per la configurazione della palese violazione di ciò che “la coscienza sociale considera il minimum etico” (cfr. Cass. Civ., Sez. Lav., 1 settembre 2009, n. 12735), con la conseguenza che ogni questione afferente all’affissione del codice disciplinare diviene irrilevante. In simili ipotesiinfatti, non sussiste il rischio per il dipendente di incorrere in sanzioni per mancanze non conoscibili, poiché ogni comportamento che configuri una grave violazione dei doveri fondamentali del rapporto di lavoro è conoscibile e contestabile indipendentemente da una specifica previsione contrattuale. Ci si
riferisce, segnatamente, a tutte quelle condotte di per sé idonee a rilevare quale giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, in forza delle previsioni generali di cui all’art. 2119 c.c. e all’art. 3 legge 604/1966.

Da ultimo, come si è già avuto modo di osservare, del tutto infondata la contestazione relativa alla mancata affissione del codice disciplinare, non soltanto in quanto lo stesso era regolarmente esposto sul luogo di lavoro, ma anche in quanto si tratta di
condotte di gravità tale da rendere irrilevante la questione”.

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