Facciamo nostro l’urlo della collega di Torino: non possiamo lasciare che la critica del reale passi la mano ad una scelta di totale indifferenza. Lettera

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Michele Lucivero – Non lasciano indifferenti le parole di una signora, giacché ai giovani siamo abituati, che inveisce contro i poliziotti durante una manifestazione, che li apostrofa duramente e che alla fine gli augura di morire, soprattutto se la signora è anche un’insegnante, una educatrice, e questo per due ragioni principali: primo perché sono un padre e m’interessa non poco quello che per circa trenta ore settimanali le mie figlie ascoltano nei primi anni di vita nella scuola pubblica statale, secondo perché, essendo anch’io un insegnante, mi interrogo spesso sul mio ruolo, sui valori che trasmetto quotidianamente con il mio solo apparire all’interno di un contesto didattico fatto di giovani in crescita, valori come il rispetto per ogni forma di vita, per ogni essere umano, disabile o straniero che sia, valori che voglio debbano imparare, anche perché poi, noi docenti siamo chiamati a valutarli per le loro competenze di cittadinanza, per il loro rapporto con gli adulti e gli operatori della scuola!

Ecco, da questo punto di vista, probabilmente se dovessimo valutare la collega per mezzo di una comune griglia di valutazione per la condotta in uso nelle scuole, non sarebbe sufficiente, ma da qui a pensare di chiederne il licenziamento sarebbe davvero esagerato, non foss’altro che dovremmo poi instaurare un regime di libertà vigilata in cui tutti gli inseganti sarebbero sottoposti alla sorveglianza non solo durante il proprio orario di lavoro, ma per tutto il resto della giornata.

Tuttavia, tornando alla questione in oggetto, cioè la violenza verbale e l’aggressività con cui la collega ha affrontato di petto un’urgenza di cui poi occorre senz’altro precisare i contorni, ci sarebbero un paio di punti su cui gli educatori dovrebbero riflettere, e di conseguenza comportarsi, anche quando non sono nelle aule con i bambini e con i giovani. Personalmente, io non so imbracciare un fucile, non ho fatto nemmeno la leva perché avevano tolto l’obbligo quando ho finito l’Università e, in ogni caso, avrei optato per l’obiezione di coscienza, perché, il punto è che, in realtà, io un fucile non vorrei mai imbracciarlo, diversamente dalla scelta della collega, non lo farei perché non è in questo modo che penso si debba mettere fine alla violenza, foss’anche alla violenza fascista o neofascista, xenofoba e razzista.

Se faccio l’educatore è perché sono persuaso che chi si è abbeverato dalla fonte del sapere, sia esso umanistico o scientifico, considerato anch’esso nella sua prospettiva storica, creda fermamente nella relazione educativa per operare una vera e propria rivoluzione politica, ma senza armi, una rivoluzione che parta da una relazione autentica e che trasforma le persone per mezzo delle sole parole. Come insegnava Aldo Capitini, il lavoro del maestro ha una dimensione squisitamente politica, poiché egli nella relazione con il fanciullo deve cogliere la dimensione della festa, della realtà liberata, non dell’odio nei confronti del diverso, di chi anche la pensa diversamente fino a giungere alla violenza. Il maestro deve avere una funzione quasi profetica, escatologica, poiché deve essere in grado di intuire, in uno squarcio di apertura, il futuro da prefigurare per il fanciullo e aprire così uno spazio concreto nella speranza di una realtà migliore tutta da costruire. In questo senso la scuola è un centro politico, di costruzione di nuovi significati condivisi e negoziati attraverso la pratica comune di tutti i soggetti coinvolti, tra cui il docente, l’educatore, che dovrebbe coordinare le operazioni nel segno, appunto, del rispetto reciproco, della nonviolenza, della negoziazione, della co-costruzione, della risemantizzazione, cercando di trovare insieme le parole per risignificare le situazioni inedite, che portino verso la società inclusiva.

Da questo punto di vista mi piace riprendere l’espressione capitiniana secondo la quale il docente deve essere un indipendente disciplinato, e non stoltamente un dipendente indisciplinato, cioè deve concepire la sua professionalità all’interno di un sistema statale, nazionale, in cui crede come istituzione, ma senza esserne organico, ciecamente subordinato. Il docente, però, deve essere, al tempo stesso, disciplinato, cioè nonviolento, e accettare anche il dialogo con persone che hanno una diversa visione della realtà, altri valori, confidando nella forza della persuasione e nella pace.

D’altro canto, a differenza di Capitini, che optò faticosamente per la nonviolenza durante il regime fascista, la nostra generazione, quella degli attuali quarantenni o giù di lì, ha vissuto, in Italia e in gran parte dell’Europa occidentale, un periodo di effettiva pacificazione, di sostanziale libertà politica, di relativo benessere. Abbiamo avuto la fortuna di non aver vissuto materialmente delle guerre, ciò non vuol dire che non ne esistano, che non le facciano i nostri governi, non è assolutamente un modo per girare lo sguardo dall’altra parte, anzi, proprio perché siamo persuasi del fatto che non essendo entrata la violenza nelle nostre vite, siamo uomini liberi, liberati dalla violenza, abbiamo a fortiori il dovere morale di opporci alla guerra e predicare la nonviolenza, di affermare che non è necessaria nessuna forma di violenza, sia essa fisica, psicologica o verbale nei confronti di altri esseri umani, fossero anche poliziotti, dipendenti dello Stato come noi, chiamati spesso a dover obbedire ad ordini che non condividono pur di portare uno stipendio a casa.

Detto questo, anzi proprio in virtù di tutto ciò, non possiamo non far nostro l’urlo della collega, non possiamo lasciare che il dissenso, la critica del reale, passi la mano ad una scelta di totale indifferenza, apatia, chiusura nel proprio piccolo, così come non possiamo scadere più nella becera spirale della lotta armata, della distruzione del reale. E davanti all’esistenza, ancora oggi, di gruppi che si richiamano al fascismo la tentazione di lottare è forte, tanto quanto lo straniamento, perché ci si chiede quale sia stata finora la lezione della storia, cosa spinge ancora oggi alcuni giovani a richiamarsi a quei valori che Norberto Bobbio associava alla disuguaglianza, all’antiliberalismo, all’autoritarismo, all’irrazionalismo.

Eppure, anche i giovani che credono in questi valori, o disvalori, passano dalle nostre scuole, li abbiamo tutti i giorni sotto i nostri occhi, li ascoltiamo, li valutiamo, li vediamo crescere nei loro contesti amicali e familiari e, se giungono a tanto, forse, la responsabilità intellettuale è anche un po’ nostra, per non aver creduto fino in fondo al potere che abbiamo nelle mani, vale a dire alla possibilità di far sentire la nostra protesta che si leva forte ma con delicatezza nell’opzione della costruzione della futura società nonviolenta.

Di fatto, come educatori, abbiamo tutti i giorni, sia dentro sia fuori dalla scuola, la possibilità di far comprendere ai nostri giovani che non è necessaria la violenza, abbiamo il dovere di mostrare i prodotti della violenza ed esecrarne la terribile spirale distruttiva che essa alimenta, lasciando emergere la necessità storica di costruire una realtà migliore, non aggressiva e nonviolenta.

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