Facciamo i compiti o sarebbe meglio dire: “Fai i compiti”. Il ruolo del genitore

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Dr.ssa Anita Avoncelli, Pedagogista – Ha fatto molto discutere ultimamente una lettera di un papà che ha preso carta e penna ed ha scritto una lettera alle maestre di suo figlio, giustificandolo di non avere fatto eseguire i compiti perché, a suo dire, altri aspetti, più importanti legati alla sua vita e alle relazioni quotidiane, hanno impegnato il bambino.

Certo chi metterebbe in dubbio che vivere intensamente il rapporto tra un genitore e i propri figli non sia importante o che vedere un tramonto insieme non sia fantastico, esiste anche una normativa datata 1969 (anno non a caso) che ne specificava l’importanza .

A chi verrebbe in mente di ostacolare il naturale decorso della vita e la sua semplice osservazione data dalla mente pura di un bambino. Chi mai limiterebbe una passeggiata in un prato, il guardare con occhi sognanti un cielo stellato di un bambino. Ma credo che questo sia una parte della nostra vita, ma non la totalità della nostra esistenza.

Ma parte della nostra quotidianità è anche fatta di piccole frustrazioni, di eventi semplici che mettono in discussione alcune certezze, che permettono di affrontare, ma guarda anche un po’, superare le sfide della vita stessa.

E’ un’anomalia tutta italiana, infatti, che si tenda a preservare i figli da qualsiasi tipo di frustrazione nell’illusione di aiutarli nella crescita, contrariamente, invece, si limitata il loro corretto sviluppo verso un’autonomia individuale e sociale.

Dall’altra parte, non fa tempo ad arrivare il week end che molti genitori si vedono alle prese con i famigerati compiti, tanto che, alcuni si fanno prendere da una vera e propria ansia da prestazione legata al compito ben fatto, alla cornicetta rigorosamente colorata e a tutte le migliaia di fotocopie incollate con fiumi di colla da finire di colorare entro il lunedì mattina.

Le due situazioni sono l’estremo, l’esagerazione, ma anche le due facce, della stessa identica medaglia.

Da una parte un genitore che giustifica il proprio di figlio per non essersi adeguatamente impegnato in che cosa? In un compito. Attenzione non nei compiti, ma nel suo compito, che oltre ad ammirare l’essere è fatto anche di fatica, con la sottile pretesa di confermare che, divertirsi è meglio che impegnarsi. Ma dopotutto qualcuno dice che è meglio che i giovani imparino presto che il lusso è meglio dello studio, quindi questo è il paese e la mentalità che vogliamo lasciare alle nostre generazioni e i viaggi per Marte sono ancora lontani, ahimè per poter cercare un nuovo mondo.

Dall’altra parte, la presa in carico su di sé, come genitore dei figli in modo esclusivo. Anche in questo caso più che aiutarlo e sostenerlo nell’autonomia individuale, affinché si prenda carico di quello che è il suo compito, preferiscono una bella prestazione, spesso sostituendosi a lui. Spesso si sente dire: “ Dobbiamo fare i compiti, invece di dire: “Deve fare i compiti”. Ma allora chi? Tu o tuo figlio?

E’ vero lo si aiuta, ma lo sia aiuta talmente tanto, che alla fine si passa il tempo a prendere il suo posto per il timore che se non li fa e bene, con il metodo del genitore, potrebbe pure prendere una nota. Tragedia!!! Ci siamo sostituiti talmente tanto che, la nota la prendiamo noi e non ce lo possiamo permettere, ne andrebbe della nostra autostima.

I compiti sono un messaggio di ciò che vogliamo che diventino i nostri figli. Autonomi, magari con un voto discreto ma raggiunto con la fatica del loro lavoro, oppure dipendenti, magari con i primi ottimi fino alle medie, perché dopo la vedrei un po’ dura continuare a sostituirsi nei loro compiti ed interrogazioni. Così assistiamo a giovani che arrivano ad un certo punto incapaci di avere un metodo di studio o a fare i tirocini, o entrare nel modo del lavoro, spesso fragili, incapaci di assumersi su di sé iniziative, propositività, spirito di gruppo e una certa spina dorsale nell’affrontare la vita di ogni sacro santo giorno.

E’ vero, in molte realtà anglosassoni i compiti non vengono assegnati, i ragazzi terminata la giornata scolastica sono liberi di fare ciò che vogliono, ma il confronto non regge, esiste un sistema educativo completo che sostiene a 360° lo sviluppo e lo studio, infatti ciò che viene fatto a scuola risulta essere più che sufficiente per i ragazzi. La scuola è eccellente, con strumenti, aule all’avanguardia e insegnanti riconosciuti nel loro lavoro attraverso un adeguato stipendio.

In Giappone in molte scuole i bambini aiutano a pulire, a sistemare la loro classe, i bagni e tutto questo non è vissuto come una vessazione ma bensì un compito condiviso sociale.

In queste realtà però è tutto un sistema, prima di tutto sociale, che sostiene l’autonomia e la crescita perché il bambino prima ed il ragazzo poi, sa di poter fare affidamento sull’adulto che non necessariamente è il proprio genitore, esiste cioè una società che sostiene, protegge senza che ci sia sistematicamente la difesa dei propri figli. I figli sono figli di tutti e per tanto vanno sostenuti. E’ un impegno pubblico prima che privato.

Più io mi occupo di qualcosa, più la faccio anche mia e per tanto ne sentirò maggiormente il carico affinché venga rispettata.

In Italia invece vige il senso che ciò che è privato è mio mentre ciò che pubblico è sempre di qualcun altro, chissà di chi? Quindi posso anche sporcarlo, tanto poi ci sarò qualcuno, il genitore di turno o l’avvocato che mi difenderà. Posso fare anche a meno di impegnarmi se non è riconducibile ad una gratificazione personale, magari immediata. Il tempo dell’attesa si è perso, ma questa è un’altra vicenda spinosa.

Se a sette anni il suo impegno sarà la consapevolezza di dover ultimare una poesia, una cornicetta e lo farà da solo, quando ne avrà quaranta probabilmente sarà determinato nel dover ultimare un altro lavoro come dovere e soprattutto ne sarà capace perché ha avuto la possibilità di sperimentare costantemente le sue capacità. Furbizia, scorciatoie ed intelligenza non vanno a braccetto e prima o poi le cose emergono. E’ meglio impegnarsi da subito. No?

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