Docenti più giovani e delle medie a rischio esaurimento, telecamere non sono una risposta … Il controllo senza l’ascolto del malessere

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I recenti fatti di cronaca sugli innumerevoli atti di aggressività agiti da genitori ed alunni a scapito di docenti che provano in qualche modo ad assolvere al loro ruolo professionale, dà ormai il senso di una profonda crisi della dimensione educativa rivestita dalla scuola.

Anche la politica sembra fare “orecchie da mercante”, limitando un possibile intervento esclusivamente all’istallazione di telecamere ed occhi indagatori all’interno delle classi, volte a stanare quei docenti che non si sa come e soprattutto quando, sono diventati “persecutori” delle nuove generazioni. La psicologia, come è noto, indaga le cause e le modalità di espressione dei fenomeni psichici, e ad essa oggi più che mai è chiesto il compito di occuparsi della “catastrofe educativa”.

I docenti, da secoli, hanno avuto il compito di accompagnare alla scoperta del sapere le nuove generazioni, attraverso la possibilità di diventare volano di crescita e di conoscenza di sé e del mondo. Da un po’ di tempo invece sembra essersi completamente ribaltata tale concezione. I giovani, gli adolescenti, sono sempre più rabbiosi, privi di un’idea di futuro. Gli stessi si “confrontano” con genitori spesso incapaci di riconoscere nei figli debolezze e lacune, in quanto difficilmente disposti a mettere in discussione l’idea delle proprie ombre genitoriali e personali. Ciò che spesso i docenti raccontano è il risultato di uno scontro tra genitori convinti che i propri figli siano vittime di “orchi persecutori”, e professori misconosciuti, derisi, vittime spesso di pregiudizi e stereotipi professionali.

Quanto detto non deve, comunque, condurre alla convinzione che i docenti siano tutti capaci di assolvere adeguatamente alla loro mansione educativa. Al contrario, all’interno di tale collettività, com’è facilmente intuibile, si racchiude la complessità umana, composta da docenti illuminati e da chi, al contrario, si ritrova a rivestire tale ruolo arrancando, senza riuscire a gestire i molteplici livelli ad esso connessi.

Spesso sono proprio i docenti più giovani, più motivati e con più alte aspettative circa la professione, quelli più a rischio di incorrere nel Burnout (Ditta, 2018). I risultati di una ricerca condotta dalla scrivente sul territorio nazionale, su docenti appartenenti alla scuola dell’infanzia ed al primo ciclo di istruzione, hanno infatti permesso di individuare che la fascia più a rischio è quella compresa tra i 38 ed i 43 anni, all’inizio della carriera, in particolare per ciò che riguarda una delle tre dimensioni esplicative del Burnout (tra l’esaurimento emotivo, la depersonalizzazione e la realizzazione personale), ossia quella della depersonalizzazione, quel distanziamento emotivo che il docente sperimenta rispetto agli allievi ed alle loro storie personali.

Tale dato pare sostenere quanto riportato in letteratura, secondo cui sono i più giovani, o comunque coloro i quali si approcciano alla professione docente (considerando anche l’età media nella quale in Italia si stabilizza la carriera lavorativa di un insegnante), ad avere una maggiore propensione ad incorrere nel Burnout per via del maggiore investimento sulla professione e di più alte aspettative (Albanese, Fiorilli, e Gabola, 2010; Anderson e Iwanicki, 1984; Friedman e Faber, 1992; Gavish e Friedman, 2010; Lau, Yuen, e Chan, 2005; Lavanco, Novara, e Iacono, 2003; Maslach, 1992).

Allo stesso tempo, anche l’ordine di servizio sembra avere un’influenza sulle dimensioni dello stress lavoro – correlato. Emerge, infatti, che sia i docenti di scuola dell’infanzia che di primaria, presentano un livello di realizzazione personale maggiore rispetto ai docenti di scuola secondaria di primo grado. Sia lo studio che la letteratura sull’argomento sostengono, a tal proposito, che proprio questi ultimi risultano essere meno realizzati rispetto ai loro colleghi di scuola dell’infanzia o primaria (Genovesi e Liperini, 2016; Bianchi, 2017; Gabola e Iannaccone, 2015).

Ciò pare spiegabile da un lato, con la problematicità del periodo adolescenziale, e dall’altro, con la difficoltà di tale ordine di scuola di impartire regole e disciplina, esponendo i docenti ad alunni sempre più aggressivi, scarsamente motivati, ed appartenenti a famiglie che frequentemente disconfermano i modelli educativi scolastici (Szulevicz, Mai, Marsico, e Vaalsiner, 2016; Iannaccone e Marsico, 2007). Spesso sono proprio queste famiglie a delegare alla scuola ciò che al loro interno non riescono ad assolvere, ossia una relazione autenticamente educativa. Il bambino che non è guidato, accompagnato nel suo percorso esistenziale, diventerà un individuo pieno di rabbia, incapace a tollerare frustrazioni e limiti, un individuo capace solamente di agiti e non di un pensiero sull’azione.

È la relazione educativa che permette al giovane diventato adulto di essere veramente libero e critico. In una società liquida, continuamente in evoluzione, la mancanza del ruolo educativo della scuola e dell’autorevolezza delle famiglie, genera spesso il ricorso ad un’appartenenza esclusivamente virtuale, quella della Rete.

In quel luogo “altro” tutto diventa possibile, e la violenza, la sopraffazione sul compagno più debole, lo scherno verso i docenti diventano normali prassi quotidiane, spesso impunite e prive di conseguenze. A tale quasi totale assenza di attenzione dei genitori rispetto all’intrappolamento nella Rete nella quale cadono i figli e, a volte, loro stessi, corrisponde una modalità a tratti persecutoria ed investigativa verso i docenti. La richiesta che questi genitori spesso fanno ad una società e ad una politica incapace di guardare oltre i fatti (se di “fatti” si tratta), è quella di investigare, di stanare i docenti aggressivi e malefici attraverso l’occhio neutro di una telecamera.

Ma le relazioni e l’umano di neutro hanno ben poco. E così la soluzione diventa la trappola. La telecamera ferma un momento, un momento preceduto spesso da anni di segnali non riconosciuti, da malesseri interiori che spesso non trovano accoglimento né tra i colleghi, né con i dirigenti, volti a districarsi tra i meandri della burocrazia scolastica e che, un po’ per mancanza di conoscenza, un po’ per difficoltà esecutive, evitano di mettere in pratica strategie adeguate alla gestione dello stress lavorativo legato alla professione docente. Una società che non si occupa dei docenti è una società che non dà peso all’educazione ed alle sue conseguenze sulla formazione individuale.

È una società che conferma il disvalore della felicità immediata, a portata di click, e che ha finito per anestetizzare le emozioni durature. È necessario, pertanto, tutelare la salute dei professionisti della scuola, e non solo dal punto di vista fisico. Promuovere la creazione di un senso di appartenenza professionale, in cui l’altro, il collega diventa risorsa e non limite. Sensibilizzare la politica alla realizzazione di azioni volte a dare piena attuazione al DL 81/2008, così come all’individuazione di un’utilizzazione diversificata dall’aula dei docenti che si trovano a fine carriera.

Appare, dunque, necessario occuparsi della salute professionale dei docenti, a vario titolo e su diversi livelli. Intanto, riconoscendo le malattie connesse a tale ruolo, per altro tipiche delle helping profession, ed allo stesso tempo, mettendo in atto tutte le strategie preventive e di intervento volte a dare ascolto e contenimento allo stress ed al Burnout dei docenti. Ciò che appare auspicabile è la necessità di resistere alla tentazione di confondere comportamenti a volte esasperati, con modalità abituali di condotta. Di fronte a videoregistrazioni osservate da chi spesso di scuola sa poco o niente (giudici e avvocati, poliziotti e carabinieri) è abbastanza facile estendere una sequenza di pochi secondi, all’abitualità di un comportamento.

Senza considerare che il costo sulla collettività di tali strumentazioni volte a stanare le “streghe di turno” potrebbe essere abbattuto da una capillare operazione di formazione, che si basi non solo sul potenziamento delle competenze didattiche dei docenti, ma che possa sviluppare in particolare l’Intelligenza Emotiva, come modalità volta al contenimento ed alla canalizzazione delle proprie ed altrui emozioni, inevitabilmente connesse ad un lavoro nel quale la relazione è componente centrale dell’attività lavorativa. Al contempo, appare auspicabile la promozione di gruppi di ascolto per docenti, oltre all’apprendimento di tecniche di empowering e di coaching, in grado di poter fornire strumenti atti a gestire lo stress lavorativo nelle situazioni più problematiche (Bianchi, 2016), promuovendo il benessere globale dell’insegnante sul piano emotivo e relazionale.

Alla luce di quanto prima detto, è dunque opportuno chiedersi se per le istituzioni, la politica e la comunità tutta è più conveniente investire su processi lunghi, onerosi e spesso dagli esiti inconcludenti, e sull’utilizzo di telecamere e strumentazioni varie volte a scovare i “presunti colpevoli”, o al contrario occuparsi in modo serio del Burnout e dello stress lavoro correlato sviluppato dai docenti, con interventi capillari e non isolati al “singolo progetto” realizzato dalla scuola più sensibile al problema. E dunque, è più opportuno occuparsi dei fatti, degli esiti infausti del malessere docente, o piuttosto affrontare le cause e l’esordio del Burnout, impedendo, attraverso interventi mirati, la cronicizzazione del disagio?

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