Docente chiede tutela per presunto mobbing e viene condannata a 3.500 euro di spese legali

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Il mobbing è una fattispecie così difficile da provare, con prove così onerose a carico del lavoratore, che prima di avventurarsi alla ricerca di giustizia per l’accertamento di condotte riconducibili al mobbing, è il caso di rifletterci bene prima di agire, stante gli orientamenti sempre più restrittivi della giurisprudenza e con condanne alle spese anche rilevanti.

Ciò perchè è difficile far emergere la differenza tra un comportamento che può essere valutato come conflittuale dalle condotte ritorsive, che devono essere ripetute nel tempo, valutabili come mobbing. Quello che sicuramente serve nella scuola sono elementi di intervento preventivo finalizzati a reprimere e/o sanare eventuali stati di malessere, e strumenti che possano conferire la giusta tutela ai lavoratori nei confronti di un sistema che vedo un mero sbilanciamento improprio di poteri a favore dei dirigenti scolastici.

Un sistema di potere che se mal gestito può ingenerare conflittualità difficile da gestire. Se per aversi mobbing servono condotte sistematiche e prolungate e ripetute nel tempo, come vedremo, quando le condotte non sono, forse per ragioni di strategia, prolungate e sistematiche, come tutelarsi?

Continuare a ragionare solo sulla quantità e non sulla qualità della condotta, continua ad essere un modus operandi che ha semplicemente reso inutile la fattispecie del mobbing, perchè non viene conferita alcuna tutela ai dipendenti.

Certamente i DS sono passibili di procedimenti disciplinari quando assumono certe e date condotte, ma quanti sono in Italia i procedimenti disciplinari intentati contro i DS? E quelli contro i lavoratori? Ci sarà una sproporzione enorme. Ovviamente non si deve mai generalizzare, perchè quello del DS è un lavoro difficile con enormi responsabilità e non è un lavoro per tutti/e ci sono Ds incompetenti che farebbero meglio a fare altro come Ds assolutamente bravi e capaci, e lo stesso vale per i lavoratori, per i docenti e gli ATA, e ciò che comunemente ci si chiede è se il sistema attuale, per come strutturato, tende a tutelare di più i dirigenti scolastici od i lavoratori?

Veniamo al caso del presunto mobbing di cui alla Sentenza della Cassazione che si commenta.

Un docente adiva il Tribunale per ottenere il risarcimento del danno contrattuale, per violazione dell’art. 2087 cod. civ., nei confronti del MIUR, e del danno extracontrattuale, ex art. 2043 cod. civ., nei confronti del suo dirigente. La domanda, qualificata dal giudice di merito come risarcimento danni da mobbing, posto in essere nell’arco temporale dal 1992 al 2003 dal datore di lavoro attraverso l’operato del dirigente scolastico veniva rigettata dal Tribunale; ed il ricorso giungeva in in Cassazione che si pronunciava sul caso con la Sentenza del 10 novembre 2017, n. 26685.

La ricorrente rilevava che per aversi mobbing sono necessari una serie di atti o comportamenti vessatori reiterati nel tempo e posti in essere nei confronti di una persona impossibilitata a reagire con il preciso scopo di perseguitare, emarginare ed escludere la c.d. vittima.

Alla ricorrente, come sottolineato nell’ appello, non interessava concorrere alla definizione di mobbing ma ottenere il risarcimento del danno ai sensi delle suddette disposizioni del codice civile.

In ogni caso, sussistevano, a detta della ricorrente, nella specie sia la continuità e la progressiva intensità, sia lo specifico disegno criminoso teso ad emarginare e vessare il dipendente.

Quali le condotte per aversi Mobbing?

Per i Giudici la doglianza di violazione di legge non è fondata atteso che come questa Corte ha già avuto modo di affermare, con riguardo al mobbing, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro rilevano i seguenti elementi, il cui accertamento costituisce un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se logicamente e congruamente motivato:

a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;

b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;

c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;

d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi (Cass., n. 17698 del 2014).

Elementi questi che il lavoratore ha l’onere di provare in applicazione del principio generale di cui all’art. 2697 cod. civ. e che implicano la necessità di una valutazione rigorosa della sistematicità della condotta e della sussistenza dell’intento emulativo o persecutorio che deve sorreggerla (Cass., n. 7382 del 2010).

La necessità della sussistenza dell’elemento soggettivo e cioè dell’intento persecutorio, è stata riaffermata da Cass. n. 2142 del 2017 anche in relazione ad una fattispecie in cui veniva prospettata una situazione di inattività lavorativa, nonché da Cass. Del 2017 n°2147 .

Pertanto il mobbing, venendo in rilievo il principio del neminem ledere, sia pure nel più ampio contesto di cui all’art. 2087 cod. civ., la cui violazione deve essere fatta valere con autonoma azione, di cui nella specie il giudice del merito ha escluso la proposizione, non è riconducibile a mera colpa, occorrendo la prova di un intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.

La sentenza Cass., S.U., n. 8438 del 2004, afferma espressamente che il termine mobbing può essere generalmente riferito ad ogni ipotesi di pratiche vessatorie, poste in essere da uno o più soggetti diversi per danneggiare in modo sistematico un lavoratore nel suo ambiente di lavoro, e solo con riguardo alla specifica fattispecie che gli era devoluta ha affermato che venivano in rilievo violazioni di specifici obblighi contrattuali derivanti dal rapporto di impiego.

In merito al caso specifico il lavoratore affermava, giustamente, che ciascun insegnante ha il diritto e dovere di contestare e recriminare sulle questioni che non condivide circa la gestione della scuola presso cui opera, e il preside non ha il diritto, anche se esasperato, di insultare e prevaricare gli insegnanti.

Ma per i Giudici nel comportamento denunciato da parte del lavoratore vi era la mancanza di carattere ritorsivo stante anche il carattere conflittuale tra le parti e sempre per la Corte non “poteva parlarsi di mobbing quando la posizione del sovraordinato è giustificata da una fitta serie di accuse da parte di chi è sotto ordinato” ed il lavoratore verrà condannato a pagare 3.500,00 di spese legali.

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