Disturbo da deficit di attenzione e iperattività e psicofarmaci: situazione attuale

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concesso da lapoesiadellospirito Francesco Pucci – In Italia l’AdhdDdai (Adhd: Attention deficit hyperactivity disorder; Ddai: Disturbo da deficit di attenzione e iperattività, la sua traduzione italiana) è entrata prepotentemente a far parte del lessico comune a partire dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso.

concesso da lapoesiadellospirito Francesco Pucci – In Italia l’AdhdDdai (Adhd: Attention deficit hyperactivity disorder; Ddai: Disturbo da deficit di attenzione e iperattività, la sua traduzione italiana) è entrata prepotentemente a far parte del lessico comune a partire dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso.

In psicomotricità lo stesso problema era già noto dagli anni Sessanta e ben definito da lavori dagli anni Ottanta in poi. Prima ancora, la medicina studiava gli stessi sintomi già dalla fine dell’Ottocento (v. allegato Breve storia del Ddai). Evidentemente il problema esiste da tempo e, come si dice oggi, da tempi non sospetti.

La risposta al problema, invece, è cambiata nell’arco dei decenni, in particolare dal 1950 in poi, con l’avvento degli psicofarmaci. In Italia, la polemica riguardo al Ddai è sorta proprio intorno all’uso dei farmaci per curarlo, perché il più utilizzato è una anfetamina: alcuni ne hanno richiesto la reintroduzione e la distribuzione, altri l’hanno osteggiata perché mancano studi indipendenti che provino la mancanza di effetti e danni collaterali nel medio e lungo termine.

Definizione
La definizione di Ddai è un po’ cambiata nell’arco degli ultimi cinque decenni, ma i fondamenti restano i disturbi legati alla inattenzione, all’iperattività e all’impulsività, tali da compromettere il funzionamento sociale, scolastico o lavorativo, per periodi non inferiori a sei mesi continuativi (v. allegato Definizione del Ddai).

Diagnosi
Per la sua diagnosi i circa cento centri accreditati (UONPIA: Unità Operative di Neuro e Psichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza, di norma presso Ospedali e Servizi Territoriali della sanità pubblica, vedi elenco qui) utilizzano i parametri indicati da due manuali diagnostici: l’americano DSM (Diagnostic and statistical Manual of Mental Disorders), pubblicato dalla APA (American Psychiatric Association), e l’altrettanto diffuso in Europa ICD (International Classification of Diseases), stilato dall’OMS-WHO (Organizzazione Mondiale della Sanità) (v. allegato Diagnosi e manuali diagnostici).

Quasi tutti i criteri diagnostici coincidono nei due manuali, ma poiché il loro raggruppamento è differente, utilizzando il DSM è possibile sovra-diagnosticare il problema, portando oltre la realtà sia il numero di casi, sia il numero di prescrizioni di farmaci (v. allegato Abuso di diagnosi).

In concreto, se utilizziamo i criteri meno restrittivi del DSM, tra i 6 ed i 18 anni la percentuale attesa di casi con diagnosi di Ddai raggiunge il 3,9-5%, mentre secondo l’ICD si attesta all’1,2% circa. In Italia, la differenza, su circa 7.500.000 minorenni coinvolti, sta tra un’attesa d 292.000-375.000 a casi (DSM) e 90.000 (ICD). Gli studi e le rilevazioni italiane, oltretutto, abbassano le previsioni all’1% massimo, scendendo con le attese a 75.000 casi. Che non sono pochi.

Farmaci per la cura del Ddai (v. allegato Farmaci per il Ddai)

Il Ritalin®
In estrema sintesi: sintetizzato nel 1937, commercializzato nel 1954 in Svizzera, nel 1958 in Italia. Ritirato dal commercio in Italia, per iniziativa della casa produttrice, nel 1989. Associazioni di genitori e pediatri ne hanno richiesto la reintroduzione con una campagna iniziata nell’ottobre 2000. A Giugno 2002vengono pubblicate le Linee guida della Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e Adolescenza (SINPIA).

A luglio 2003 la Commissione Unica del Farmaco (oggi A.I.Fa.-Agenzia Italiana del Farmaco, dell’Istituto Superiore di Sanità) l’ha riclassificato spostandolo dalla ‘Tabella I degli Stupefacenti ad alto potenziale di abuso’ alla ‘Tabella II sostanze che hanno attività farmacologica’, ovvero per uso terapeutico, per permetterne l’uso sperimentale presso strutture accreditate per alcuni anni (2001-2006).

Da marzo 2007 il metilfenidato (nome commerciale: Ritalin®, casa farmaceutica: Novartis) è nuovamente prescrivibile, senza le precedenti complesse procedure ministeriali, solo dai centri di riferimento neuropsichiatrici regionali riconosciuti per l’Adhd. Il metilfenidato è efficace nel 70% dei casi trattati. (fonte: Il Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività, Le novità nel trattamento dell’ADHD, consultato il 2.10.11)

In parallelo, è stata autorizzata la commercializzazione di un secondo farmaco d’elezione per la cura del Ddai: l’Atomoxetina (nome commerciale: Strattera®, casa farmaceutica: Eli Lilly).

Va detto che a parte ipotesi, per quanto condivise, non esistono studi che spieghino esattamente il meccanismo d’azione dei due farmaci: funzionano, ma non si sa bene come e perché lo facciano su un disturbo come il Ddai.

Per quanto attiene l’aumento di prescrizione di metilfenidato correlata al Ddai, i dati 2000-2004 indicano una quadruplicazione in Francia e un raddoppio in Gran Bretagna (Fonte: Ist. Sup. Sanità, Pietro Panei, Assisi, 11.05.2007).

Attualmente i due farmaci sono prescritti più o meno nella stessa quantità. (Fonte: Ist. Sup. Sanità, Pietro Panei, in Salute. Adhd, in Italia 2 mila bimbi trattati con psicofarmaci. Durata media dei trattamenti con Ritalin o Strattera è di 15 mesi).

Inoltre studi dell’ISS riferiscono che i farmaci permettono un miglioramento dei sintomi un po’ più veloce (per es. sei mesi anziché 8-12), ma che a 24 mesi, tra i casi curati senza farmaci e quelli curati con i farmaci, non esiste una sostanziale differenza. Un dato interessante, che depone a favore dei sintomi che ‘parlano’ di disagi del bambino che chiedono di essere ascoltati, presi in carico, che chiedono di averne cura.

Il Registro Italiano dell’Adhd
Accanto ai centri di riferimento neuropsichiatrici regionali riconosciuti per l’Adhd è stato istituito il Registro Italiano della Sindrome da Iperattività e Deficit di Attenzione, che segue Procedure Operative Standard (SOP). Questo registro ha lo scopo di monitorare attentamente diagnosi di Ddai e prescrizioni di psicofarmaci ai minorenni coinvolti, e di verificare che vengano applicate le linee guida previste, che obbligano a condurre accanto alla cura farmacologica una serie di interventi psico-comportamentali e di sostegno, di rete, in collaborazione con scuola e famiglia. Le stesse Linee Guida prevedono controlli sulla efficacia e necessità della cura farmacologica: dopo una e quattro settimane dall’inizio, dopo altri cinque mesi e poi semestralmente. Ogni 12 mesi il trattamento va interrotto per verificare la necessità di proseguirlo o, in alternativa, la possibilità di continuare la cura dell’Adhd con la sola terapia psico-comportamentale.

In Italia il trattamento con metilfenidato o atomoxetina può proseguire al massimo sino ai 18 anni di età. Sempre nel nostro Paese, tra il 2007 ed il 2009 erano in trattamento farmacologico circa 900 bambini, e a giugno 2011 circa 2 mila. La durata media del trattamento è di 15 mesi.

Secondo le stime, ci si attende di arrivare ad una diagnosi di 75.000 casi, dei quali circa il 10-15% da trattare farmacologicamente. Non esistono studi italiani sulla percentuale di casi trattati farmacologicamente. Mi riferisco quindi alle statistiche britanniche e francesi riferite da P.Panei: 11-28% in Gran Bretagna, 9% in Francia. (Fonte: Ist. Sup. Sanità, Pietro Panei, Assisi, 11.05.2007, diapositiva 24)

I consumi di metilfenidato nel mondo: alcuni dati
Negli USA: tra il 1990 ed il 1995, 900.000 bambini assumevano Ritalin. Oggi si stima che il numero sia cresciuto a circa 5 milioni (dei quali l’80% maschi). Va detto che negli USA la diffusione del farmaco è stata incoraggiata da leggi che erogavano fondi sia alle famiglie che alle scuole in cui veniva diagnosticata la presenza di bambini con Adhd: più casi, più sostegno economico, più fondi alle scuole. Non è neppure necessario pensare male per cogliere il nesso tra diagnosi, prescrizione e business: basta leggere i dati in modo sinottico.

  • Svizzera: nell’ultimo decennio l’uso di Ritalin è pressoché decuplicato, constata l’Istituto per i prodotti terapeutici Swissmedic (fonte: News di Alcologia e problemi alcol-correlati, Ritalin: farmaco e droga legale, Fonte: ADUC.it 18 gennaio 2011, consultata il 2.10.11):

“(…) il consumo di questo stimolante è aumentato a livello mondiale da 2,8 tonnellate nel 1990 a 15,3 tonnellate nel 1997. I picchi più alti di consumo europeo di metilfenidato secondo il Council of Europe Parliamentary Assembly si registrano in: Svizzera, Islanda, Regno Unito, Germania, Belgio Olanda e Lussemburgo. Nella sola Gran Bretagna la percentuale di prescrizione dello stimolante è aumentata del 9.200% tra il 1992 e il 2002.” (Fonte: Trentamila bambini in Italia per legge sotto psicofarmaci, tutto tace.)

  • Olanda: circa 750 mila bambini olandesi tra i 5 e i 15 anni – il 34, 2% del totale – assume in Olanda farmaci per controllare l’Adhd;

Le polemiche attuali
Dall’inizio della vicenda Ddai/Metilfenidato in Italia, le polemiche riguardano alcuni punti fondamentali e non si sono sopite neppure dopo la regolamentazione, severa, bisogna riconoscerlo, della somministrazione del farmaco.

Prima polemica: il Ddai è una malattia inventata.

Seconda polemica: non è necessario dare droghe ai bambini, oltretutto senza conoscerne con certezza le conseguenze a livello neuro-fisiologico a medio-lungo termine

Terza polemica: la diagnosi è gonfiata per favorire le case farmaceutiche produttrici dei farmaci.

Non è necessario che ci addentriamo in queste polemiche, in particolare sulle ultime due: i lettori le conosceranno già e possono seguirle agevolmente su internet; mi limiterò ad esplicitare un mio punto di vista psicomotorio.

Se una persona soffre, ritengo che si debba intervenire con una terapia quando la sofferenza le impedisce di agire e vivere nel proprio ambiente socio-affettivo; in altri termini, se un problema è in grado di condizionarmi, di limitare la mia libertà, ovvero se un problema ha me, anziché essere io ad avere un problema, è ora di intraprendere una cura.

Ampliare gli orizzonti
La sofferenza dell’infanzia nel mondo non è una novità. Sulla Terra oltre 3 miliardi di abitanti hanno meno di 25 anni, sono cioè attuali e futuri genitori, e di questi i bambini (0-18 anni), sono oltre 2 miliardi. Vediamo come vivono:

Bambini lavoratori

Da 5 a 14 anni: 211 milioni, 121 dei quali privi di qualsiasi istruzione; In Italia (stima): 145.000-430.000.

Da 15 a 17 anni: 140 milioni

Totale da 5 a 17 anni: 351 milioni, dei quali 8,4 milioni in schiavitù

(fonte: UNICEF-ILO-IPEC, 2002)

Minori molestati, abusati o maltrattati

da 25 a 35 milioni nel mondo; media europea: 3-6%; in Italia: circa 350.000

Altri dati

20 milioni di bambini sono profughi (1993-2003)

11 milioni muoiono ogni anno prima dei 5 anni

11 milioni vivono orfani a causa dell’AIDS

5 milioni sono stati feriti in guerra, con danni permanenti (1993-2003)

2 milioni sono morti in guerra, di cui 100.000 saltati sulle mine (1993-2003)

1 milione vive in solitudine (1993-2003)

300 mila (<15 anni) sono soldati; 2/3 maschi, 1/3 femmine (dato 2003)
(fonte: Conferenza Mondiale sull’Infanzia, Roma, ottobre 2004)

In totale: oltre 430 milioni di minori, pari al 20-25% dei minorenni della Terra (dati 1993-2003). Un bambino su quattro/cinque non cresce bene, o non cresce affatto.

Negazione dell’infanzia
Quando, dunque, si parla di abuso di psicofarmaci in età evolutiva, è mio parere che si debba dare a questo argomento la giusta dimensione, e non dimenticare di inquadrarlo in quella diffusa violazionedell’infanzia che oggi caratterizza la cultura planetaria, Italia inclusa.

All’inizio degli anni Ottanta, la psicopedagogista americana Mary Winn, disse che quella di allora era la fase culturale che sanciva la fine dell’era della protezione dell’infanzia, inaugurata da Rousseau, e l’ingresso nell’era dell’iniziazione.

Alla testimonianza della Winn possiamo aggiungere oggi che non solo i bambini sono indotti a crescere in fretta, ma che l’infanzia è negata in molti modi, e che l’era della iniziazione è pervasa di appiattimento ed assenza di riti di passaggio da un’età all’altra, cosicché l’adolescenza trascorre priva di eventi e relazioni che ne dirigano e segnino significativamente i passaggi. Chiamerei dunque questa l’era della negazione e della violazione dell’infanzia.

Vedete bene che, in questa prospettiva, il Ritalin è solo una goccia nel mare della grave trascuratezza e del maltrattamento riservato all’infanzia. Abbiamo sfiorato una panoramica mondiale perché l’uso degli psicofarmaci coinvolge i bambini di circa un terzo dei paesi del mondo, e si sta diffondendo anche in Italia. Il Ritalin, dunque, non mi pre-occupa in sé, ma è certo urgente ed opportuno occuparsene, oggi, perché rientra tra gli esempi di una cultura dannosa per il nostro futuro.

Ritengo sia dovere degli adulti che intendono avere davvero cura dell’infanzia, vigilare sull’evoluzione e lo sviluppo dei bambini, vigilare sui modelli culturali che deformano la vita e lo sviluppo dei bambini, coglierne i segnali di disagio così come loro sanno esprimerli – e metto tra questi anche l’iperattività – cercare relazioni d’aiuto che, anche nel caso del Ddai, hanno un’efficacia da tempo attestata assimilabile ai farmaci (per esempio, secondo Marzocchi, del gruppo di ricerca di Cesare Cornoldi – Aidai-Onlus –, un intervento psicologico anche solo sull’ambiente permette già una riduzione del 20% della quantità di farmaci da somministrare al bambino, mentre altri affermano, e pare credibile, che una psicoterapia permetta di ridurre i farmaci del 50%).

Iperattività: sintomo di sofferenze
I bambini con Ddai esistono, e soffrono almeno quanto i genitori, che raccontano

“in casa è un tormento, è sempre in movimento (…) non fa quel che gli diciamo; si rifiuta di uscire con noi, non vuole cominciare a fare i compiti da solo perché vuole sempre una persona che lo aiuti; (…) lo vedo tranquillo ed attento solo quando guarda la tv; mi rendo conto che di fronte alle sue pressanti richieste non riesco ad avere il polso fermo e spesso lo accontento, dopo avergli negato certe cose. (…) Un’altra cosa che mi da fastidio è che ha delle ottime capacità intellettive, ma a scuola i risultati sono appena sufficienti. (…) E questo, sinceramente, mi disturba molto perché…” (G.M. Marzocchi, Bambini disattenti e iperattivi, pag. 93, Il Mulino, Bologn).

Dopo sei mesi di lavoro in parallelo, ovvero con terapia rivolta al bambino, sostegno ai genitori e consulenza agli insegnanti, la stessa mamma racconta:

“Con Paolo avevo già sentito il bisogno di chiarire, o meglio capire, che cosa stava succedendo…” e spiega che l’intervento le ha permesso di “imparare a guardare Paolo con occhi nuovi. Ho lentamente cominciato a sentire quello che provava, a capire… il perché di certi suoi comportamenti, la non intenzionalità di certe sue azioni (…) Ho scoperto i punti di forza di mio figlio, ho ritrovato il coraggio di andare alle riunioni con le insegnanti… (…) mi sono convinta che educare non è una cosa semplice e spontanea, e che genitori non si nasce” (idem, pag. 93).

Il punto di vista psicomotorio
Letta dal punto di vista psicomotorio, la stessa anamnesi cosa ci racconta di questo bambino e della sua mamma? Si direbbe una storia, forse diffusa, di una comunicazione distorta tra genitori e figli in una situazione di seria difficoltà. Non si nega la difficoltà, si dà semplicemente il giusto peso ai diversi aspetti della persona immersa nella relazione con il suo ambiente.

E’ tipicamente psicomotorio pensare al corpo in movimento come alla espressione della personalità, e mi viene facile citare Carlo De Panfilis, quando spiega chiaramente che

“Riabilitazione significa essenzialmente recupero delle funzioni relazionali preposte allo scambio individuo-ambiente, ovvero delle funzioni motorie, percettive, linguistiche e mentali” (B. Camerini, C. De Panfilis, Psicomotricità dello sviluppo, pag. 217, Carocci, Roma 2003).

Senza movimento non c’è vita, non c’è relazione
U. Galimberti, nel Dizionario di Psicologia (U. Galimberti, Psicologia, Garzanti, Milano 1999), dedica molta attenzione nel definire i disturbi dell’attenzione, la distraibilità, il movimento e spiega proprio che i primi si registrano in condizioni di stress, la seconda è sintomo di disadattamento, ed il movimento è espressione del sé.

Il punto di vista psicomotorio coincide con questa autorevole lettura.

In psicomotricità si dà la precedenza all’accoglienza del movimento come forma espressiva dell’individuo nel mondo. E’ per questo che intendo il Ddai come un messaggio, tra i cui significati possibili iscrivo anche quello, segnalato dallo stesso Galimberti, di

attivismo, (..) che si riferisce a quel prevalente interesse per l’azione, qualunque essa sia, senza una chiara individuazione degli obiettivi o di adeguate strategie, con l’unico scopo di distogliere l’attenzione da sé e dai propri conflitti, sopprimendo tutte le occasioni di autoriflessione che potrebbero portare il soggetto a ridefinire le direzioni e le modalità della propria esistenza.” (U. Galimberti, 1999, cit.).

Questo inquadramento offre una ulteriore spiegazione del tanto correre dei bambini iperattivi: cercano di fuggire dall’eventualità di trovarsi a pensare all’impensabile, ovvero alla propria sofferenza, che non riescono a contenere nel proprio pensiero, nella propria mente, e di doverci fare i conti.

E’ curioso notare come nella etimologia di ‘sin-drome’ sia implicita la corsa: dal gr. συν, che indica la con-fluenza (di sintomi), e δρομη, astratto della famiglia di dromos, ‘corsa’ (velo-dromo, auto-dromo, ippo-dromo).

Allora: iperattività e Ddai, o disturbo di personalità?
Anche in questo caso, come prevalentemente accade nella mia pratica clinica, ritengo che il primo approccio debba essere di presa d’atto e di accoglienza del messaggio di fuga-sofferenza e di disturbo della integrazione che l’iperattività esprime, ed ugualmente ritengo che il linguaggio-ponte, utile cioè alla reciproca comprensione, non possa essere che quello dell’azione e delle emozioni.

I vissuti che accompagnano la vita di un bambino così, e cito ancora Camerini e De Panfilis, infatti ineriscono l’autostima ed il mondo psichico del bambino, poiché

“l’iperattività e l’instabilità determinano una rappresentazione dell’ambiente esterno frammentaria e discontinua, a partire dalla quale si possono attivare meccanismi di difesa quali il controllo onnipotente, l’identificazione proiettiva e il passaggio all’atto, oppure meccanismi di difesa ‘nel corpo’ come la somatizzazione e l’ipocondriasi”.

Anche il vissuto dell’ambiente in cui vivono è distorto, poiché

“la rappresentazione che gli altri hanno del bambino iperattivo finisce per tradursi in comportamenti di stigmatizzazione e di esclusione, con conseguente caduta dell’autostima e instaurarsi del circolo vizioso ‘perseguitato-persecutore’.” (B. Camerini, C. De Panfilis, Psicomotricità dello sviluppo, pagg. 186-187, Carocci, Roma 23).

La caduta dell’autostima è sostenuta dai rimproveri, dal rifiuto sociale, dall’insuccesso scolastico e sportivo, dai sentimenti abbandonici, di solitudine e dalla demoralizzazione, e conduce al rischio di un disturbo ansioso-depressivo o di disturbi del comportamento. Esiste un elevato rischio che il bambino assuma un comportamento negativista e provocatorio.

In sintesi, fin qui abbiamo detto che: il corpo esprime, non rappresenta il sé; il movimento è espressione di volizione; il comportamento comunica; la comunicazione influenza il comportamento.

Se consideriamo il corpo in movimento come espressione di sé, mettiamo il Ddai in relazione non solo con una disfunzione a carico di aree cerebrali e neurotrasmettitori, ma con la espressione di un Sé, da cui discende la necessità di leggere attraverso altre lenti i messaggi che il bambino ci invia.

Veniamo ora ad alcune letture possibili del Ddai, sempre dal punto di vista psicomotorio, emerse nel corso di due seminari ANUPI a Milano.

I bambini iperattivi occupano spazio fisico nell’ambiente, e spazio mentale nell’adulto. Sono bambini che occupano lo spazio fisico per cercare di occupare Spazio dentro l’adulto, cioè cercano un contenitore che li accolga, li accetti. È diverso che l’adulto si ponga come scatola-contenitore o come casa-accogliente.

La prima soluzione la intendo come un contenimento forzato e forzoso, una costrizione fatta di regole prevalentemente castranti; la seconda la intendo come un complesso di regole che costituiscono e definiscono (costruiscono) la mia casa, nelle quali mi posso identificare; allora il sistema di regole mi consente di muovermi liberamente all’interno di certezze, e questo è ‘bene‘, quindi etico. Etica e casa, per inciso, hanno radici etimologiche comuni.

Sono bambini urlanti, che gridano per conquistare spazio anche con la voce, e spargere, seminare attorno i propri pezzi. Seminano e spargono sperando forse che qualcuno li raccolga e li coltivi, li faccia crescere? Dicevo: spargono attorno la propria frammentazione e a volte ne restiamo contagiati, distrutti, e chiedono -o meglio urlano- aiuto! perché qualcuno ricomponga la loro integrità.

Sono bambini che urlano perché non hanno maturato altra maniera per chiedere ascolto. Ma spesso abitano ambienti pieni di rumori concreti, emotivi e simbolici, ed incontrano adulti che fanno loro eco, cioè urlano – e il ‘rumore’ aumenta. Mi viene ora anche la considerazione che i-bambini-che-fanno-rumore, forse riflettono, sono l’eco di un rumore (suono, affetto, emozione) che li avvolge.

Ascoltare per com-prendere. Torniamo al com-prendere inteso come prendere dentro di sé, che possiamo intendere anche come presa-in-carico. Per com-prendere è necessario attivare la funzione di ascolto, Ascoltare con la A maiuscola. E possiamo aggiungere (Seminario ANUPI Milano, 14.04.2004) che anche la somministrazione di un farmaco, senza ascolto, è un atto non-etico, che non serve, perché non produce che un benessere apparente.

Il bambino iperattivo è rapido, corre, corre… Ma dove corre, ci chiediamo. Potrebbe risponderci: “Corro a cercare una soluzione ai miei conflitti, ai miei limiti nelle prestazioni che mi sono richieste, ai miei limiti di maturità o intellettivi...”. Poiché la sofferenza dovuta a questi conflitti è intollerabile, corro perché urge dentro me trovare una soluzione che le ponga fine.

Corro per crescere più in fretta, per arrivare ad essere grande prima, più adeguato alle aspettative dei grandi, che sento così pressanti e presenti, e se sarò più grande e più forte, potrò sopportarle meglio… Invece succede che se corro e non-sono-bambino, mi ritrovo a non-essere-quello-che sono, cioè a non-essere-me-stesso, e va a finire che perdo una parte di me che non avrò più da grande, e mi mancherà.

Questo non è che lo so, ma lo sento, e mi ritrovo invischiato nel conflitto tra il bisogno di correre ed il restare, tra essere grande (nelle prestazioni, nelle capacità cognitive) e restare un po’ piccolo (nelle emozioni, nei capricci, nella instabilità, che è un equilibrio non raggiunto).

Corro così qualcuno mi in-segue, mi viene dietro per fermarmi (perché io non ci riesco da solo).

Quelli iperattivi sono bambini problematici per noi, perché con questa modalità instabile e rapida, veloce, s-fuggono, escono dai nostri schemi, sono difficili da inquadrare perché è difficile andare alla loro velocità su percorsi mentali a noi inusuali, percorsi zigzaganti.

Sono, è quasi banale dirlo, bambini-ostrica o bambini coccodrillo, con una scorza dura ed una grande tenerezza interiore, come siamo (quasi) tutti.

Alcune domande
La psicomotricità è il percorso adatto per rispondere a questa necessità? E’ sufficiente? Quali strategie terapeutiche adottare?

Il plurale è d’obbligo, come sempre, e ancor di più oggi, poiché cerchiamo di definire sempre meglio le differenti possibilità terapeutiche, perché ci siano dei protocolli ad-A-ttabili e ad-O-ttabili con il singolo bambino, una carta che ci orienti in questo territorio.

Le strategie di approccio psicomotorio, sperimentate ed efficaci, sono diverse: ma convergono su alcuni modelli:

  • terapia individuale se l’instabilità non consente un minimo di socializzazione sul piano ludico,
  • terapia di gruppo se invece il problema emerge prevalentemente in presenza di coetanei e diminuisce notevolmente nel rapporto con un singolo adulto.

Inoltre, questi casi traggono vantaggio anche da interventi psicoterapeutici paralleli o alternativi alla psicomotricità (A.M. Wille, Il bambino ipercinetico e la terapia psicomotoria, pagg. 119 e segg., Armando Editore, Roma 1989).

Alcune risposte
Veniamo alla terapia: nell’intervento psicomotorio concordiamo sulla necessità di lasciare al bambino di esprimere la propria instabilità nel primo periodo, e molto peso viene dato alla stabilità e serenità del terapeuta, che deve mantenere il proprio ruolo e la funzione di contenimento con grande fermezza; all’interno delle sedute si darà la preferenza ai materiali più stabili, come teli, cubotti, oggetti grandi e pesanti, mentre saranno evitati i materiali per natura instabili come i palloni, e le attività che inducono ad occupare tutto lo spazio disordinatamente, che inducono maggior dispersione nel bambino iperattivo. La seduta va programmata ed adattata alle possibilità del bambino ed anche i tempi possono essere ridotti.

In linea di massima, da attività di grande coinvolgimento corporeo ed in rapida successione, si lavora per raggiungere una positiva situazione di contenimento (regole) che permettano – ricordate?, le regole della casa – molta libertà, cioè meno necessità di ricordarle e di ricorrere ai richiami, fino al rilassamento come occasione di ridurre la quantità di movimento e migliorare la relazione con se stesso.

Camerini e Depanfilis, ci dicono che:

“Al di là delle specifiche indicazioni psicoeducative, occorre ribadire come l’approccio clinico psicomotorio offra la possibilità di interventi riabilitativi-terapeutici fondati sulla cura dello stato tensionale o sulle alterazioni dello Schema Corporeo che spesso sottendono lo stato di iperattività e di instabilità psicomotoria: terapia psicomotoria, terapia di relaxation.

Si tratta di modalità di presa in carico che comunque devono essere inserite in un programma integrato e fondato su interventi multipli e integrati.” (B. Camerini, C. De Panfilis, Psicomotricità dello sviluppo, pagg. 187-188, Carocci, Roma 2003).

La scelta di un approccio piuttosto che di un altro conferma la necessità di adattare l’intervento alla persona – come già è nostra consuetudine professionale –, ma evidenzia anche la grande quantità di sfumature che oggi il ‘problema Ddai’ richiede di considerare, prima di procedere con una diagnosi ed un progetto terapeutico.

Domande complesse richiedono maggiore definizione e nitidezza di intervento: se una volta si parlava ‘solo‘ di instabilità psicomotoria ora si parla anche di Ddai, di iperattività, di instabilità attentiva, e se una volta si proponevano alcuni approcci, oggi se ne propongono molti e diversificati, secondo le caratteristiche del bambino e secondo la lente attraverso cui ‘leggiamo‘ il caso. L’intervento di rete diviene perciò ancor più necessario.

Cominciamo a tirare le somme
Le differenti lenti utilizzate per leggere una situazione, danno luogo a diversi scenari; con le diverse lenti sul Ddai potremmo avere per esempio il punto di vista:

  • sistemico: il bambino è l’espressione di un disagio del sistema, di una persona che appartiene ad un gruppo;
  • neuropsicologico: dis-funzione delle aree cerebrali coinvolte
  • neurobiologico: è la biochimica cerebrale ad essere coinvolta e che va corretta
  • psicomotorio: è un problema di interpretazione dell’azione
  • comportamentale: è un difetto di apprendimento di un comportamento socialmente accettabile
  • psichiatrico: è una sindrome inquadrabile nei criteri diagnostici dei manuali (ICD-10, DSM-IV)
  • neuropsichiatrico: la sindrome va valutata secondo linee guida che integrano i criteri psichiatrici
  • relazionale: sono bambini con i quali è difficile tessere rapporti equilibrati e soddisfacenti
  • metrico: sono bambini con deficit rilevabili tramite test e valutazioni i cui risultati si esprimono in numeri
  • pediatrico: la situazione va valutata sulla base delle segnalazioni di insegnanti e famiglie, e i medici possono intervenire prescrivendo terapie e farmaci.

Già con tutte queste diverse opinioni, è facile che i bambini siano frammentati. Invece è necessario ascoltare, com-prendere e ri-com-porre. Chi cerca di ascoltarli, di com-prenderli, ri-com-porli? Di essere con-loro?

Conclusioni
Spero si sia compreso che, certamente, per il Ddai non è sufficiente un intervento(psicomotorio o altro) ma è necessario tessere una rete di interventi (varietà che si adatti al singolo caso) ed un intervento di rete, collegamento che offre il necessario contenimento alla situazione del bambino, della famiglia e della scuola.

Per inciso: una rete è certo adeguata a contenere un essere che si muove tanto, veloce, che fugge, ecc.; una rete non è statica, ma cede elasticamente, studiando la psicopatologia nel contesto (P. Watzlawitck et Al., 1971, Pragmatica della comunicazione umana, pagg. 14-15, Astrolabio, Roma 1971), dando valore al comportamento come comunicazione perché la comunicazione influenza il comportamento (idem, p. 16), tenendo conto degli schemi utilizzati per osservare (idem, p. 21) anziché negarli, e riunendoli in una rete unificante che contribuisca significativamente a restituire al bambino la maggiore integrità possibile.

Tutti i pareri, che sostengano o no la biologicità del disturbo e la conseguente indicazione al trattamento farmacologico, si aprono affermando che la radice del problema affonda nel rapporto attuale tra bambino e attese sociali, spesso inadeguate alle reali capacità del bambino.

Il trattamento farmacologico non è mai sufficiente a risolvere il problema: i farmaci indicati per il Ddai agiscono sui sintomi, non sulle cause. Significa che, sospeso il trattamento, i problemi possono tornare.

Anche questi trattamenti farmacologici, come sempre in ambito psichiatrico e psicologico, sono tesi a permettere al paziente e ai suoi care-givers di operare dei cambiamenti altrimenti ostacolati o resi impossibili dalla presenza dominante dei sintomi.

Il trattamento farmacologico contiene molti rischi per la salute mentale e fisica del bambino, dai rischi cardiologici ed epatici all’aumento dell’aggressività, all’ideazione suicidaria (v. allegato Farmaci per il Ddai). Vanno pertanto valutati con estrema attenzione i pro ed i contro di tale scelta.

I trattamenti comportamentali, psicosociali e psicologici sono dunque sempre necessari, mai sostituibili dalla semplice somministrazione del farmaco.

Mi auguro infine che – tra le righe, ma in maniera sufficientemente chiara – si sia compreso che non solo nel limitato contesto del Ddai, ma in quello ben più sostanzioso del benessere dell’infanzia, la grande assente è la prevenzione, praticamente ignorata dalle istituzioni e dalla cultura medica, impegnate prevalentemente nella diagnosi e nella cura di secondo e terzo livello.

Modello transdisciplinare
Per concludere voglio ricordare ancora quanto feconda possa essere la collaborazione trasparente tra professionalità differenti, che ricerchino la migliore associazione tra bambino/paziente ed adulto/terapeuta (cercando cioè di associare ad ogni bambino il terapeuta più adatto per lui) realizzando un modello di intervento non solo inter- ma trans-disciplinare, ove ciascuna professionalità non solo partecipa portando la propria competenza, ma si arricchisce con l’ascolto e con l’apprendimento di qualcosa delle competenze altrui che migra nelle proprie (in merito, vedi G. Palo, a cura di, Il PonteTra psicomotricità e psicoterapia, Tirrenia Stampatori, Torino 2004).

Quello trans-disciplinare è il modello che consiglio ai familiari di cercare per la cura dei propri bambini iperattivi, poiché la complessità di un problema richiede una risposta capace di tenere conto di molteplici aspetti e di correlarli tra loro, facendo collaborare tutte le parti implicate (bambino, genitori, scuola, terapisti), e che ritengo vada sviluppato nel futuro delle terapie rivolte all’età evolutiva perché, come dicevo, solo ragionando in termini di collaborazione possiamo professionalmente arricchirci a vicenda e portare vantaggio ai pazienti, ed è il modello che, quanti desiderano superare i limiti dell’attuale cultura ipermedicalizzata, inseriscono oggi nel proprio concetto di Cura (quella con la c maiuscola) rivolta non solo ad una singola patologia ma al bambino ed all’infanzia, il nostro futuro.

http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2011/11/21/vivalascuola-95/

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