Concorso scuola e riforma reclutamento, Dettori: docenti meno preparati. Contenti i neolaureati

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Il nuovo sistema di reclutamento che emerge dalla bozza della legge di bilancio sollecita in questi giorni commenti e riflessioni anche nel mondo accademico, che negli ultimi 15 anni ha avuto un ruolo certo non marginale nella formazione iniziale dei docenti.

Emanuele Dettori, docente di letteratura greca all’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” che spesso ci ha aiutati a interpretare i provvedimenti che hanno costruito il cammino dai TFA ai FIT, ora tenterà di darci una mano anche ad inquadrare questo nuovo corso.

Dettori, più che nuovo corso si dovrebbe dire ritorno all’antico. Se la legge di bilancio passa così come è, un neolaureato con un piano di studi coerente con l’insegnamento e i 24 CFU in discipline antropo-socio-psicopedagogiche potrà ambire al ‘ruolo’ secondo una tempistica a cui oramai da decenni non siamo più abituati. Quale è il suo commento a riguardo?

“Se non subirà modifiche sostanziali, la bozza rappresenterà una netta inversione di tendenza rispetto agli ultimi vent’anni, ove si era affermata la consapevolezza che la professione insegnante necessita di una formazione specifica. Il FIT era organico e ben congegnato, e costituiva un investimento serio sulla formazione degli insegnanti e quindi sul miglioramento della nostra scuola. Ora con lo slogan della “semplificazione” si attua una controriforma sulla pelle degli studenti, con la nota e superficiale formula del “si impara per strada”.

Allude sicuramente all’assenza di una qualsiasi forma di tirocinio, visto che nel decreto, ad oggi, si parla soltanto di un anno di prova che, lo ricordiamo, nel percorso triennale del FIT arrivava a conclusione di un percorso ben più articolato.

“Di articolato mi pare che a questo punto ci sia ben poco: la formazione iniziale dei docenti è stata eliminata e al suo posto rimane un “percorso annuale di formazione iniziale e prova” che non si sa bene in cosa consista. Si dice che questo percorso sarà finalizzato a verificare standard professionali, ma sarebbe utile e onesto spiegare come è possibile che li si acquisisca. Sarebbe spaventoso se i nostri legislatori intendessero per essi la formazione meramente disciplinare fornita dall’Università con due CFU in croce di psico-antropo-pedagogia etc. Senza tirocinio, senza attività laboratoriale. Un fatto molto grave è che tutto ciò è il frutto, in fondo, di una svalutazione della professione docente”.

Non crede che questo elemento sarà difficilmente colto dalla coscienza pubblica, la quale forse guarderà con simpatia a un provvedimento che spiana la strada alle assunzioni dei più giovani?

“Il provvedimento ha caratteristiche demagogiche. Io credo che possa trovare favore tra i neolaureati. Ma bisogna rendersi conto che avremo in cattedra docenti tecnicamente e professionalmente meno preparati o, più probabilmente, impreparati al ‘mestiere’. Mi aspetto anche una certa superficiale soddisfazione in parte del mondo universitario”.

Come valuta la decisione di lasciare i 24 CFU psico-pedagogici?

“Sui 24 CFU mi sono, in parte, già espresso e le considerazioni sono due: 1) è l’unica cosa rimasta in cui si tratti in qualche modo di contenuti legati alla formazione degli insegnanti, ma allo stesso non sono stati concepiti per la formazione. Costituiscono un moncherino inorganico; 2) di più, non fanno altro che erodere spazio alla formazione disciplinare. Del resto, sono sempre stato tentato di pensare che sono il prodotto di un compromesso raggiunto in VII commissione durante la discussione sulla L. 107, non qualcosa di pensato perché funzionale al progetto”.

L’altra alternativa possibile sarebbero state le lauree abilitanti, che per fortuna non sono state più tirate fuori.

“È vero, per fortuna di lauree abilitanti non è traccia nel provvedimento, anche se almeno una frase ‘minatoria’ del Ministro in questo senso l’avevo sentita. Vedremo in futuro. Forse questo è anche il momento per dire qualcosa su un argomento come quello dei tempi di formazione. In questi tempi, gente che non ne ha alcun titolo e che, infatti, ne parla esclusivamente in forma di slogan, si pronuncia sulla eccessiva lunghezza di questo o quell’altro percorso di formazione. Che in realtà si tratti di parole a vuoto è dimostrato, ad esempio, dal fatto che per far arrivare al diploma a 18 anni, invece di impostare una discussione su una riforma dei cicli e operare un ‘rimpasto’ del periodo di formazione a partire da lì, si pratica una rozza amputazione degli anni di liceo.
Se, analogamente, il problema è che 5 anni di Università più 3 di FIT sono troppi, si può ragionare in molti modi, senza rinunciare a percorsi formativi efficaci, per le discipline e per la professione insegnante. Perché, almeno per due corsi di laurea importanti per l’insegnamento come Lettere e Filosofia, si persevera in un inutile 3 + 2 (ovvero 5 anni) quando si potrebbe pensare a un ciclo unico di 4 anni? A questi, se tre anni di FIT sono sembrati troppi, si possono aggiungere due anni di specializzazione e accompagnamento alla professione. Gli anni di formazione si riducono da 8 a 6 senza danni. Segnalo, per quanto riguarda durata e struttura della formazione universitaria, che il mantra che il 3+2 “ce lo chiede l’Europa” è senza senso, nel momento in cui la Spagna, per fare solo un esempio, ha una strutturazione della formazione universitaria in 4 anni più uno di master”.

Per concludere, lei in questi anni ha speso molte energie per strutturare percorsi di abilitazione all’insegnamento di alto livello all’interno del suo ateneo. Non le dispiace un po’ che l’Università venga messa da parte?

“Come ho avuto modo di ribadire di recente, il ruolo di primazìa che è stato attribuito all’Università nella formazione iniziale degli insegnanti, a cominciare dalle SSIS, è molto più problematico e meno scontato di quanto si è abituati a pensare, soprattutto in relazione alle didattiche disciplinari. Per queste non c’è una vera tradizione in campo universitario (salvo isole, come la matematica), né vedo l’intenzione di instaurarla. Ritengo quindi che il rapporto e il bilanciamento dei ruoli tra scuola e università nell’attività di formazione iniziale degli insegnanti andrebbe riconsiderato. Quindi non sono incline per principio a lamentare una lesa maestà nei confronti dell’Università. Ma qui il problema è un altro, è la stessa formazione iniziale degli insegnanti a essere stata messa da parte”.

La riforma del reclutamento in una scheda

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