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Come si è evoluto il concetto di infanzia nel tempo, le tappe dell’iconografia

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Luogo privilegiato nel quale cogliere la presenza del tema collegato all’infanzia è, certamente, l’iconografia. Ne ripercorriamo alcune tappe significative. Nel mondo greco il bambino è rappresentato con l’alato amorino, emblema di una vita semidivina e di una rappresentazione idealizzata come soggetto che, comunque, non appartiene a questa vita umana; il minore appare come un soggetto solo abbozzato.

Nell’iconografia romana il bambino è maggiormente collocato nel tempo e nello spazio e nei ritmi della sua vita e di quella dello stato in cui vive, ma sembra che sia raffigurato come destinatario di quei consigli finalizzati ad un’immagine di comportamento corretto di cui è ricca la letteratura latina.

Gesù bambino e l’infanzia divina

L’ingresso del tema di Gesù bambino (già nei sarcofagi dei primi secoli) e più in generale nel motivo dell’incarnazione, si fa strada lentamente, dando una svolta a partire dal significato dell’infanzia divina. Il Medio Evo comincerà a svilupparlo, evidenziando l’aspetto umano e tangibile del volgersi di Dio verso l’umanità. A tal proposito ricordiamo il valore che acquista il presepe dalla tradizione francescana in poi: esso interpreta la sacra famiglia composta dal Dio bambino che viene cullato da una giovanissima e tenera mamma con il volto già in preoccupazione per il futuro del figlio, ed un umile uomo, S. Giuseppe, che dimostra piena disponibilità nel suo essere padre putativo. Questa è la famiglia per antonomasia, essa abbraccia nella sua rappresentazione la famiglia di quell’epoca e il nuovo sentimento che sta nascendo tra i componenti.

La rappresentazione di Gesù Bambino in braccio alla Vergine, nella pittura e nella scultura diventa sempre più frequente, mentre cominciano ad essere più ricorrenti le figure di bambini sempre meno statici e adultomorfi. L’iconografia medievale, da un lato raffigura l’essere piccolo del bambino con la madre in una serie di atteggiamenti sempre più teneri, dall’altro lato il bambino, seppure rappresentato che ride, che si nutre al seno materno, che dorme, che si rivolge ad altri personaggi della scena, appare ancora come un adulto in miniatura anche se con la sua statura, la sua fisionomia, il suo abbigliamento.

L’iconografia rinascimentale

L’iconografia rinascimentale testimonia un nuovo sentimento; il bambino è spesso raffigurato con i genitori, soprattutto con la madre, ed occupa spazi della vita adulta, in casa e fuori; ciò rappresenta la nascita della vita privata che corrisponde a un bisogno di intimità e di identità che le società del passato non erano in grado di soddisfare. Simbolo del nuovo valore di infanzia nell’iconografia rinascimentale è il putto di derivazione ellenistica e romana. Esso “è il frutto dell’umanizzazione di un essere mitologico della tradizione in tempi e spazi sempre più definiti di soggetti originariamente atemporali e divini”. Questo farsi umano del putto, accompagnato da un continuo arricchirsi di figure di bambini nella pittura non solo italiana dal Quattrocento in poi, è il segno di un’idea diversa di infanzia non solo nella vita privata ma anche in quella pubblica. Essa, infatti, esce dai luoghi che le erano stati assegnati, la casa, la scuola, il convento, la bottega, occupando un ruolo ben definito sul quale vige uno sguardo nuovo più pieno di coinvolgimento affettivo.

Nel XVI e XVII secoli numerosi aristocratici e cittadini illustri commissionavano quadri che li ritraessero, spesso anche con moglie e figli. Il ritratto individuale veniva sostituito dal ritratto di famiglia, l’identità individuale da quella familiare. Questo originale sentimento della famiglia si va sempre più estendendo soprattutto tra le classi sociali più elevate, sentimento che dà la giusta collocazione alla figura del bambino che, seppure inizialmente sia presente nei ritratti al solo scopo di recare testimonianza della genealogia familiare, successivamente rappresenta il consolidamento del bisogno di esprimere la sua identità individuale ed il suo ruolo nell’ambito dell’istituzione primaria della famiglia.

Nello stesso periodo in quasi tutta Europa si diffonde la devozione al Bambino Gesù, devozione che vede proliferare una serie di composizioni che hanno come personaggio principale Gesù bambino che simboleggia il valore dell’infanzia. “Gesù Bambino, che nell’antichità non era rappresentato da solo, ma tra le braccia della madre, acquisisce una sorta di autonomia rispetto ad altri momenti della vita del Cristo”. Da questo momento in poi si inaugura una tradizione tutta nuova che si perpetuerà per oltre un secolo e che tende alla demistificazione di Dio. Infatti, Dio da Creatore Onnipotente si trasforma in un tenero bambino. Da qui la nascita di una corrente devozionale affettiva, sdolcinata, piena di ingenuità che, nascendo in Francia dal Carmelo e dall’elaborazione teorica di de Bérulle e trovando ampio spazio anche nella pittura, non diviene popolare ma rimane chiusa essenzialmente in una religiosità di monache e di devoti. Però, seppure non popolare la devozione al Bambin Gesù traduce i nuovi temi e i nuovi modelli culturali dell’epoca moderna sulla condizione dell’infanzia. Questo Dio che si fa bambino implica un nuovo valore di fanciullo sempre più destinatario di attenzioni e di interessi non solo nell’ambito familiare ma anche nel mondo pubblico.

Il secolo XVII e la rappresentazione dell’infanzia

Il XVII secolo presenta una ricca iconografia sull’educazione dei bambini. I dipinti non si limitano a rappresentare il comportamento degli adulti e dei bambini, ma tentano di lanciare messaggi anche sul rapporto che esiste fra le due categorie, rivestendo spesso anche un significato morale. In particolare, la pittura olandese è ricca di figure di bambini; questi dipinti rappresentano le famiglie, le madri e i figli, gli orfani, la vita dei bambini intenti ai loro giochi in casa e per strada oppure a scuola; essi sono molto descrittivi ed offrono uno spaccato della vita sociale dell’epoca. Ritratto con la sua famiglia, il bambino non è più collocato in posizione marginale rispetto alla composizione, spesso siede tra le ginocchia della madre al centro di un gruppo familiare strettamente unito in un’atmosfera domestica e familiare. Vi abbondano anche descrizioni particolareggiate del mondo del bambino, della sua educazione, dei suoi giocattoli.

Questi dipinti trasmettono valori morali come la virtù domestica, la fedeltà degli sposi, l’armonia coniugale, l’orgoglio genitoriale per i propri figli, il commovente amore materno, l’obbedienza dei figli verso i genitori, sentimenti che preludono il tema del bambino come membro della famiglia di pari dignità rispetto agli altri membri. Vi si coglie un appello all’osservatore: per essere virtuosi e realizzare l’identità desiderata bisogna avere una madre altrettanto virtuosa e una famiglia altrettanto unita. I fanciulli devono apprendere, non giocare. I maestri devono mantenere la disciplina e controllare che gli scolari si concentrino sulla lezione.

Sovente il bambino dal XVI secolo al XIX secolo viene ritratto con in mano il giocattolo. L’immagine convenzionale è quella della bambola per le bambine e del tamburo per i maschietti, unici giocattoli diffusi in quell’epoca che si perfezioneranno col passare del tempo.

L’immagine del bambino in epoca moderna e contemporanea va occupando sempre più gli spazi della città e dell’immaginario; la nostra società ci ha abituati alla fruizione di una immagine infantile posta all’interno dei processi di mercificazione e secondo lo stereotipo di un’apparente felicità.

Dai temi si sviluppano i modelli culturali

Per Platone i fanciulli debbono essere educati al valore della giustizia in vista del bene comune e pertanto vanno dotati di un grande bagaglio culturale; egli propone che siano sottoposti a un lungo tirocinio, durante il quale possano compiere studi approfonditi di letteratura e di matematica. Avendo di mira la costruzione di una società di uguali, Platone pensa anche all’istruzione delle fanciulle, che doveva essere in tutto e per tutto simile a quella ricevuta dai coetanei maschi. Egli nel V libro della Repubblica descrive in particolare la paideia dei bambini “selezionati” ai quali è senza dubbio garantita la cittadinanza perfetta della polis (Repubblica, 460 c), essi verranno allevati in spazi comuni ad opera della polis e dei suoi governatori (ivi, 461 b). La loro istruzione si caratterizza in uno stile formativo (ivi, 466-467 a; 458 b) con esperienze di caccia e di guerra (ivi, 467 c). Platone è, dopo Socrate, il primo che rivendica il contributo decisivo dell’educando: il maestro esteriore è solo causa occasionale al chiarirsi dell’oscurato rapporto con le idee (reminiscenza).

Nell’antica Roma, dapprima, l’obiettivo della formazione del bambino è quello dell’abile guerriero, poi quello del cittadino, infine, quello dell’oratore. Dopo il confronto con la cultura ellenica, il carattere della formazione romana diventa essenzialmente umanistico-letteraria. Tale impostazione lascia una traccia durevole nella cultura occidentale.

In epoca cristiana lentamente si fa strada un modello nuovo; è soprattutto nelle comunità religiose che si vanno sviluppando i diversi percorsi formativi, caratterizzati sia dalle varie forme di addestramento (alla preghiera, al lavoro, alla cultura) sia dal nesso della cultura con l’evangelizzazione e, conseguentemente, con ciò che la rende più agevole (la lettura dei sacri testi, la conoscenza della lingua, la conservazione della cultura del passato…). D’altra parte, già fin dal V secolo cominciano a svilupparsi quelle scuole che hanno il compito di formare il clero cui, a sua volta, è affidato il compito di evangelizzare e di istruire il popolo incolto. L’infanzia, gravitando intorno al mondo monastico ed alle prime forme di organizzazioni parrocchiali, usufruisce di tutto ciò che viene offerto da queste comunità ecclesiali, sia all’interno dei percorsi di educazione cristiana, sia all’interno di quell’accoglienza-ospitalità che costituisce motivo ispiratore della regola di diversi ordini religiosi.

Nello scenario medievale, soprattutto tra il 1000 e il 1300, da un lato, anche a causa delle crisi economiche, emerge il modello del bambino abbandonato (un gran numero di bambini viene lasciato in conventi, monasteri, in ospizi per trovatelli, bambini oblati, affidati e/o adottati); dall’altro lato, quando le condizioni cominciano a cambiare, inizia un movimento di migrazione dalle campagne verso le città ed emergono nuovi mestieri, nuove forme di vita e di comunicazione fra gli uomini; questo comporta una iniziale valorizzazione dell’infanzia e delle sue esigenze educative e di inserimento lavorativo.

Durante l’Umanesimo vengono pubblicati diversi trattati di pedagogia che delineano un’immagine del bambino sempre più precisa e consistente. L’attenzione si concentra sull’educabilità del fanciullo che, in quanto tale, non è un adulto in miniatura, ma viene riconosciuto come soggetto con caratteristiche peculiari che vanno coltivate ed educate.

Seppure nell’ambito della trattatistica pedagogica del Quattrocento restino i nostalgici della vecchia cultura del Medioevo (rimpiangono la severa disciplina e perfino le botte riconosciute come sanzioni necessarie per tenere a freno la vulnerabile età); in gran parte dei trattatisti pedagogici comincia a farsi strada un concetto più democratico di pedagogia. Giovanni Conversini, per esempio, nella sua autobiografia richiede una precisa conoscenza della singolarità di ogni ragazzo in modo da adoperare per ognuno strumenti idonei alla sua indole.

La pedagogia di Erasmo da Rotterdam

Esempio di questa nuova pedagogia è il modello educativo di Erasmo da Rotterdam. Nell’ultimo quarto del XV secolo compaiono i cosiddetti “dialoghi scolastici”, molti di questi sono rimasti inediti; con Erasmo il dialogo di scuola entra a far parte della letteratura e per la prima volta il minore assume il ruolo di personaggio principale: i personaggi dei dialoghi sono gli stessi bambini. “Qui Erasmo crea un genere, in quanto – cosa che nessuno prima di lui aveva mai fatto – si dedica a una ricognizione sistematica di tutte le situazioni della vita sociale e anche della vita intima del bambino” Si tratta di lezioni in forma di dialogo, talvolta fittizio talvolta reale, ma sono sicuramente documenti insostituibili sul mondo della scuola e degli scolari dei secoli XV e XVI; essi offrono uno spaccato di vita dove, comunque, serpeggiano sempre preoccupazioni morali e religiose.

Questo nuovo valore dell’infanzia in epoca moderna è destinato ad estendersi soprattutto durante il periodo della “caccia alle streghe”.

La nascita del giocattolo

Dopo il Medioevo inizia dalla Francia, e si estenderà in tutta Europa, un nuovo tipo di artigianato orientato alla fabbricazione del giocattolo; ma solo molto tardi, non prima del XVIII secolo, alcuni pedagogisti cominciano a valorizzare il giocattolo in sé, come esempio della libera espressione del bambino. Rousseau, superando la precedente critica della bambola come gioco ridicolo e da evitare, ne propone una interpretazione positiva, a partire dalle esigenze della bambina; la bambina vestendo e spogliando la bambola non fa altro che proiettarsi in una rappresentazione di donna futura.

Ma se il giocattolo può rendere felici bambini di famiglie benestanti, l’Ottocento è colmo anche della presenza massiccia di bambini poveri e di strada. Il bambino povero è un bambino che non ha uno spazio suo, spesso lavora; “promiscuità con fratelli e sorelle con genitori e altre persone grandi della famiglia connotano la sua giornata e soprattutto la sua notte. Il suo è un letto sovente condiviso con gli adulti; girello e carrozzina sono arnesi di lusso e quindi rarissimi e di seconda mano, e la sua motricità – il deambulare, lo star seduto, l’addestrarsi con oggetti fatti a misura della sua manina – si esercita come nei secoli passati, su attrezzi e oggetti della vita degli adulti o rozzamente costruiti per lui. Questo significa un suo essere grande in modo più precoce, avere un’infanzia più breve anche nelle sue dimensioni materiali, non poter esercitare – prefigurandoli in tempi più distesi e senza l’urgenza della necessità – le attività proprie della vita adulta”.

La strada è spesso il regno di molti bambini dell’Ottocento, bambini che mendicano, che chiedono l’elemosina, piccoli errabondi, bambini ceduti da famiglie troppo povere per sostentarli.

Freud che introduce la figura teorica di un bambino

Il XX secolo si caratterizza per svariati modelli di infanzia. Innanzitutto, quello di S. Freud che introduce la figura teorica di un bambino nel quale si vanno configurando le istanze psichiche e si prefigurano le molte patologie e le quasi introvabili normalità della vita adulta. Altro modello è quello di J. Piaget, il quale studia il bambino dal punto di vista cognitivo osservando il suo comportamento durante condotte ludiche. Questo modello giunge fino ai nostri giorni e trova ancora oggi molto successo. Parimenti, E. Erikson insiste sugli otto stadi di sviluppo dell’Io psicosociale entro cui si giocano le chances di maturazione della personalità (fiducia-sfiducia, autonomia-vergogna, spirito di iniziativa-senso di colpa, industriosità-senso di interiorità, identità dell’Io-dispersione, intimità-isolamento, generatività-stagnazione, integrità dell’Io-disperazione).

I luoghi per l’infanzia, le scuole, il nuovo assetto edilizio e si diffondono le “scuole nuove”

La nuova conoscenza del mondo dei bambini porta alla nascita di luoghi per l’infanzia; le scuole tendono a variare nel loro assetto edilizio, si diffondono le “scuole nuove” dove si fa attenzione, oltre che a modi diversi di far crescere il bambino, a contenuti di studio più motivati, a modi di studio più aggiornati. Nella seconda metà del nostro secolo, soprattutto negli ultimi decenni, si può parlare di una cultura dell’infanzia fatta di oggetti per il bambino, di libri per l’infanzia, di cartoni animati per l’immaginario del bambino.

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