Bettiza, scrittore tra confine ed esilio. Lettera

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di Pierfranco Bruni – La parole e l’esilio. La costante inquietudine che si traduce in scrittura per raccontare un vissuto. Il vissuto degli uomini, dei popoli e delle civiltà in questo vissuto si resta persona perché la nostalgia è un raccapricciante gesto di memoria che scava inevitabilmente nella storia. Lo scavato della storia esce dal palcoscenico della cronaca per farsi memoria. Infinita e indefinibile. Come sono gli anni. Come è lo stesso tempo.

Enzo Bettiza è stato uno scrittore che ben ha saputo legare le lingue, essendo nato a Spalato, con le identità che sono diventate vere e proprie appartenenze. Uomo di confine e non solo di un vissuto in cui l’esilio è stata una realtà e una testimonianza metaforica. Un incastro estremo che ha raccolto le voci dei profughi e delle diaspore tra cultura ed esistenza. Sempre con i linguaggi Bettiza ha dato senso al suo viaggio. Amico di lungo corso nelle nostre dialettiche letterarie tra gli scrittori di frontiera: da Svevo a Michelstadter. Un sottile conoscitore proprio degli scrittori della diaspora nel cuore della Dalmazia.

Un vocabolario elegante nel quale si leggono radici e luoghi, terre e mari, biografia e sguardo attento alle rappresentazioni del quotidiano. Parte appunto dalla sua biografia per raccontare. Giornalista, politico, è stato parlamentare, saggista. I suoi libri narrati, però, restano una pietra angolare nell’interminabile viaggio delle rese e delle conquiste. La famiglia e la tradizione restano centro e labirinto.

Così ebbe a dire: “La mia famiglia faceva parte della aristocrazia mercantile già dai tempi di Venezia. Ma il padre del mio bisnonno sfruttò le grandi opportunità del periodo napoleonico, quando il duca di Ragusa promosse l’industrializzazione della zona. Ho ancora gli appunti di mio padre, un po’ joyciani dal punto di vista stilistico, tra italiano, dialetto veneto e altre lingue, e le memorie in serbo-croato del fratello di mia mamma, che fu un celebrato cantante d’opera. La prima lingua è stata il serbo-croato di mia mamma. Ma all’età di cinque, sei anni è intervenuto il papà, che pure parlava benissimo il serbo croato, col suo dialetto veneto. A 11 anni ero già a Zara, per il ginnasio italiano. Insomma, nasco quasi trilingue, perché non bisogna dimenticare il tedesco. Per me era normale vivere così. Solo quando sono diventato un esule ho capito che ero cresciuto in un posto molto complicato, e mi sono reso conto che era un ginepraio. Per me l’infanzia e l’adolescenza in Dalmazia furono un’epoca d’oro. Vivevo in una famiglia agiata, e in un ambiente naturale bellissimo. Un paradiso perduto. Potevo diventare cittadino italiano, jugoslavo o austriaco. L’esilio ha fatto di me un europeo convinto”.
Uno spaccato importante che fa comprendere anche il sistema di vita nel quale si è formato. Culturalmente di formazione mitteleuropea ha saputo confrontarsi con il mondo vasto del Novecento ben radicato nell’Ottocento, ma nella sua testimonianza si contrappone con chi ha considerato il Novecento un secolo breve. Ha perfettamente ragione. Il Novecento è stato non un solo lungo, ma lunghissimo sottolineò più volte Bettiza.

Così scrisse: “Il Novecento, definito da Hobsbawn “secolo breve”, si sta invece rivelando lungo, lunghissimo. Stermini, esodi, carestie, guerre regionali infinite, malattie e miracoli inauditi: non si può costringerlo nella camicia di forza della brevità, facendolo coincidere quasi al millimetro con la durata del comunismo reale. Il secolo passato si è innestato su quello attuale, senza soluzioni di continuità. Ecco perché il nichilismo dolce e pigro di questi anni zero del XXI secolo non può esprimerlo, se non stancamente”.
Siamo alle grandi considerazioni di La fine del Novecento, del 2009. Non ha mai temuto critiche ed è stato sempre puntuale alla sua coerenza: “La letteratura italiana continua a girare attorno ai soliti tre o quattro nomi: Calvino, Gadda… Poi viene soltanto una modesta scuola postmoderna nella quale non mi riconosco; un relativismo che finisce per dissolvere l’idea stessa del male.” Parte forte di una cultura pesante Bettiza ha guardato in quel destino dei personaggi e delle civiltà che è stato alla base di una visione, appunto, di rivelazioni (o di svelamento).

La sua impostazione letteraria ha condotto Enzo ad approfondire le letterature considerandole come antropologie delle civiltà. Mi sembra molto pertinente questa affermazione: “Il ripudio di tutto ciò che sa di monocultura, di etnocentrismo sciovinistico, è stato in me, oltreché costante, anche precoce e spontaneo. Fin dalla prima età della ragione io avevo istintivamente detestato qualsiasi forma e manifestazione di nevrosi nazionalistica. Avevo sempre resistito, proprio perché circondato dai loro canti seduttivi, alle varie sirene fomentatrici di odio e di fanatismo razzistico. Da solo, senza leggere Grillparzer, avevo intuito che c’era un nesso fatale e losco fra nazionalità e bestialità. La mia fluida psicologia di confine, il mio carattere attirato dall’ubiquità, il mio stesso bilinguismo, mentale nonché orale, mi avevano fin da bambino predisposto all’assorbimento naturale di influenze diverse e contrastanti”.

Uomo e scrittore completamente del (e nel) Novecento ha studiato con molta attenzione i comunismi e la loro disfatta. I muri e i contromuri. Sapeva leggere con una peculiarità percettiva i fenomeni politici e storici. Sono nati libri come I fantasmi di Mosca, (1993), La primavera di Praga. 1968: la rivoluzione dimenticata (2008). Saggista e giornalista, narratore.
Lo scrittore scava il narrante nel gioco di un linguaggio che non smette mai di diventare rivelazione. Il fantasma di Trieste, (1958) è un romanzo che si apre a delle innovazioni linguistiche, come anche il romanzo del 2013 dal titolo La distrazione. Il tema dell’esilio è praticamente un sottotitolo che permea tutta la sua scrittura, ma scrive un romanzo dal titolo Esilio pubblicato nel 1996. Ecco l’esilio: “L’esilio prolungato nello spazio e nel tempo, esilio senza ritorno, aggravato dal vagabondaggio dispersivo in altri mondi, possiede una rara quanto perforante facoltà distruttiva: lentamente carbonizza tutto ciò che siamo stati altrove, recide i vincoli di sangue, spegne i ricordi, fa impercettibilmente tabula rasa del passato”.

Accanto a tale problematica insiste la questione dello scrittore di frontiera al quale Bettiza resta molto legato per “spiegare” anche la visione del confine e dell’oltre. Così, infatti, sottolineerà: “La caccia alla totalità, nella letteratura cui apparteniamo, porta necessariamente all’ incompiutezza. A differenza dello scrittore italiano, quello di frontiera è adatto a travalicare i confini e rompere le chiusure, favorendo il travaso di un secolo, il Novecento, solo apparentemente concluso. Le cinquecento pagine del mio Fantasma di Trieste, le duemilasette dei Fantasmi di Mosca sono la testimonianza di questa mia ricerca della totalità. Non per titanismo o superomismo, sia ben chiaro. Ma perché altrimenti, secondo me, non si possono più scrivere romanzi seri e credibili. Devono confluirvi vari elementi e generi contrastanti, come la narrazione, la filosofia politica, anche certe forme di giornalismo: nel tentativo di ricreare, dopo l’antiromanzo, il post-romanzo”.

Uno scrittore in cui la metafisica dell’oltre diventa la metafisica costante della ricerca, del viaggio e dell’esilio. Era nato a Spalato il 7 giugno del 1927. E’ morto a Roma il 28 luglio del 1917.”

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