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Aule all’aperto, in molte scuole non sono più un tabù. Ecco un esempio

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I nuovi paradigmi educativi invitano sempre più spesso a ripensare lo spazio-lezione travalicando i confini fisici delle aule, eppure le aree esterne delle nostre scuole continuano a essere viste in chiave esclusivamente ludica, dove svolgere attività ricreativa o sportiva.

Una panoramica sulle istituzioni educative più all’avanguardia, in realtà, ci aiuta a capire che le ‘aule all’aperto’, come il progetto A.LA.S. (Aree Laboratoriali di Sensorialità), possono rappresentare il setting idoneo per esperienze di apprendimento complete e coinvolgenti, in cui la sensorialità diventa il canale privilegiato per la costruzione del pensiero riflessivo e delle competenze.

Ne abbiamo parlato con Lidia Tavani, antropologa e pedagogista che ha progettato e seguito la realizzazione di un’area laboratoriale all’aperto (A.LA.S.) all’interno di un istituto comprensivo della Capitale.

Dottoressa Tavani, abbiamo parlato di nuovi paradigmi didattici, ma in effetti l’idea che interno ed esterno possano essere pensati e strutturati come spazi di apprendimento complementari è ben più antica.

“Direi antichissima se pensiamo a Rousseau o Fröbel! Tutto nasce quando si inizia a considerare lo spazio, sia esso chiuso o all’aperto, come co-protagonista del processo educativo. Quest’idea, sebbene antica, è stata proposta in modo pedagogicamente strutturato intorno alla fine dell’800, sulla scia dei nuovi movimenti culturali che volevano riformare il modello tradizionale della scuola. I maggiori contributi in questa direzione sono arrivati dal movimento dell’attivismo pedagogico. Mi riferisco soprattutto ad alcuni poli culturali del movimento: quello statunitense, afferente al pensiero dell’ “educazione progressiva” di John Dewey; quello francofono, ispiratore della “scuola attiva” basato sugli studi di psicologia dell’educazione (come per esempio quelli di A. Ferrière, P. Bovet, J. Piaget, C. Freinet, E. Claparéder…); e quello italiano, che ha fatto capo ai lavori delle sorelle Agazzi, di Giuseppina Pizzigoni, Maria Montessori e Loris Malaguzzi. Il concetto chiave che sostiene l’impalcatura di tutte queste proposte è l’apprendimento di tipo esperenziale e sperimentale, ossia fortemente ancorato all’ambiente e alla realtà sociale da cui prende sviluppo: l’ambiente ‘in-forma’ i processi di apprendimento in base alla relazione che il soggetto, in modo autonomo e in presa diretta, instaura con esso e con gli elementi che lo compongono. Ecco dunque che, nell’ambito scolastico di quel periodo, il concetto di spazio didattico ha iniziato a perdere la sua identificazione con l’aula per andare all’esterno e aprirsi alla molteplicità di spazi.

Nel nostro paese gli anni della prima metà del’900 e di qualche decennio più avanti hanno visto numerosissimi esempi di scuole che modulavano la propria offerta formativa tra l’interno e l’esterno e che producevano una ricca riflessione sulla progettazione dello spazio didattico. Purtroppo tali idee di riforma non hanno attecchito e hanno trovato continuità – che sorpresa! – all’estero, mentre da noi abbiamo assistito alla riaffermazione del modello scolastico tradizionale.

Fortunatamente oggi le cose stanno cambiando di nuovo e la ricerca nazionale, cavalcando l’onda della cultura ecologica della sostenibilità da un lato e quella del rinnovato interesse per il concetto di spazio come elemento educativo dall’altro, sta riscontrando ampio interesse nel riproporre il tema dell’ambiente esterno come luogo di apprendimento in continuità con l’apprendimento in aula. Tante scuole stanno rinnovando i propri spazi di apprendimento sperimentando una nuova offerta formativa.

In questo clima di ascolto, attenzione allo spazio, volontà di offrire risposte alle nuove sfide della didattica per competenze e abilità, abbiamo elaborato insieme all’architetto Giovanni Fumagalli il progetto A.LA.S., Aree Laboratoriali di Sensorialità. Il progetto A.LA.S. è stato accolto con entusiamo dall’Istituto Marymount, una scuola paritaria in Roma, che ha voluto investire nella progettazione di spazi innovativi puntando su percorsi di apprendimento esperenziali e creativi. In particolare le A.LA.S. declinano l’esperienzialità con una proposta multisensensoriale”.

Il risveglio della sensorialità prepara il terreno a un’esperienza emotiva forse più forte e più ricca.

“Proprio così, il canale della sensorialità diventa prezioso per vivere esperienze cosiddette totalizzanti, in cui i bambini si immergono completamente in una situazione didattica entrando in contatto profondo con se stessi. Una proposta didattica di tipo multisensoriale consente di mettere in campo abilità molteplici, di volta in volta diverse in base agli interessi e ai bisogni individuali del momento. In questo modo tutti raggiungono gli obiettivi richiesti e l’apprendimento si carica di un’emotività positiva che apre il pensiero al “possibile”. Quest’ultimo è il pensiero che cerca con passione strade per raggiungere la propria meta, è il pensiero che trova soluzioni creative, è il pensiero proattivo e prosociale che comprende la quotidianità attraverso le lenti di ciò che ognuno può fare, per se stesso e per gli altri, mettendo in azione e a disposizione i propri talenti”.

Come avete strutturato le diverse aree all’interno della scuola? Per alunni in quali fasce di età sono state concepite?

“Le aree sono destinate ai bambini della scuola dell’infanzia e del primo ciclo della scuola primaria (classi I, II e III).

Lo spazio è stato organizzato mettendo insieme il pensiero dell’attivismo pedagogico (in particolare il modello dell’atelier di Reggio Children) con le idee dei nuovi modelli di progettazione degli spazi scolastici (i recenti modelli “1+4 Spazi Educativi” a cura di INDIRE e “Future Classroom Lab” della European Schoolnet). Per quanto riguarda questi ultimi si tratta di modelli per spazi interni, tuttavia ne abbiamo conservato la struttura in “aree di attività”, addattandola ad uno spazio esterno e inserendo speciali strutture didattiche per svolgere attività laboratoriali di tipo sensoriale.

Le attività (attività di gruppo, attività di esplorazione, attività individuali, attività informali, attività di gioco simbolico, coding e giochi di corporeità) si svolgono all’interno di specifiche aree (area luce, area suono, area odori, area storie, area tattile e di manipolazione, area composizione, area riposo, area aula a cielo aperto), caratterizzate dalla presenza di speciali strutture didattiche per l’esercizio della sensorialità, progettate appositamente per le A.LA.S..

Lo spazio A.LA.S. è uno spazio che parla, cioè che comunica, con forme e colori, l’identità di ogni area e, di conseguenza, la tipologia di attività che è possibile svolgere in ognuna di essa; ed è uno spazio che dialoga, che propone un’interazione riflessiva attraverso le speciali strutture didattiche di tipo non strutturato con cui è possibile giocare in tanti modi diversi, stimolando la creatività su base sperimentale”.

Accanto a queste aree più strutturate ce ne sono altre che potrebbero apparire in un primo momento spoglie, qual è il senso di questa scelta?

“Il nostro obiettivo è sempre stato quello di fare in modo che in questi spazi ognuno, tra bambini e insegnanti, potesse trovare la propria dimensione e sperimentare in modo diretto la pluridimensionalità di un medesimo obiettivo di apprendimento.

Per questo motivo abbiamo lavorato assiduamente cercando un dialogo quanto più efficace possibile tra architettura e pedagogia. Il risultato si è tradotto in speciali strutture didattiche di arredo che sono state progettate per offrire ampia creatività sia nella formulazione della proposta didattica che nell’esperienza della stessa. Si tratta di costruzioni molto semplici dotate di un’impalcatura che può essere implementata gradualmente dalle idee dei bambini, poiché vi è la possibilità di appendere manufatti mobili o attaccare in modo stabile pannelli didattici progettati dai bambini o dagli insegnanti. Quando abbiamo fatto l’inaugurazione delle A.LA.S. al Marymount molte di queste strutture si presentavano completamente spoglie, lasciando sbigottiti persino gli stessi bambini che li visitavano per la prima volta: «Ma li costruiamo noi per davvero? Con le cose vere?»!”.

L’idea era proprio quella di presentare uno spazio non finito, work in progress, che potesse crescere e cambiare con il contributo creativo di ciascuno su base esperenziale e sperimentale. Le A.LA.S. vogliono essere spazio di conoscenza e, in quanto tale, si costruiscono e ricostruiscono come in una spirale dinamica senza fine”.

Pensa che esperienze didattiche di questo tipo possano avere ricadute positive anche sui ragazzi con Disturbi Specifici dell’Apprendimento?

“Tra le speciali strutture didattiche di arredo ve ne sono alcune pensate propriamente per l’esercizio delle funzioni del sistema attentivo-esecutivo e della memoria di lavoro. Si tratta di esercizi che hanno una ricaduta positiva in modo particolare su coloro che hanno o potrebbero avere una diagnosi di DSA, ma più in generale su tutti gli studenti, perché stimolano le abilità che sono alla base di ogni tipo di apprendimento e di studio.
Queste strutture sono state progettate unendo la prospettiva degli studi pedagogici e delle neuroscienze riguardo ai disturbi specifici di apprendimento con le teorie antropologiche sui concetti di incorporazione.

Per quanto riguarda il campo dei disturbi specifici di apprendimento ho fatto riferimento alla metodogia della “didattica integrata” formulata dall’Associazione Nazionale Disturbi dell’Apprendimento, a cura del dott. Andrea Di Somma e con la supervisione scientifica del prof. Francesco Benso. A questa metodologia ho unito due elementi, di chiara derivazione antropologica: la dimensione relazionale e l’esercizio consapevole e controllato della propria corporeità come canali privilegiati di costruzione di processi di significazione e, dunque, di apprendimento.

Ho sostanzialmente proposto una nuova forma, più antropologica forse, al contenuto della “didattica integrata” e ai principi con cui sono stati costruiti alcuni test per la valutazione delle funzioni esecutive (in particolare i test che valutano le funzioni di pianificazione, programmazione di strategie, controllo degli impulsi e di inibizione)”.

La chiamano anche ‘didattica outdoor’, le piace questa definizione?

“È un termine molto utilizzato ultimamente, rientra nell’ampio movimento dell’outdoor education (OE). Personalmente intravedo aspetti positivi e aspetti negativi.

L’aspetto positivo è dato dall’accento sullo spazio esterno come ambiente educativo e didattico. Può sembrare poco rilevante, ma personalmente ritengo che l’interazione educativa con l’ambiente, con ogni tipo di ambiente (chiuso, all’aperto, naturale, antropico…), costituisca la premessa per la costruzione di un sapere attivo, in grado di offrire un contributo per una crescita personale e sociale.

L’aspetto negativo è il rischio di incorrere in divisioni dicotomiche, che creano un distinguo molto netto tra didattica indoor e didattica outdoor. Certamente non potrei mai negare l’esigenza e l’opportunità di metodologie didattiche diverse a seconda dello spazio abitato, ma allo stesso tempo penso che i contenuti e gli obiettivi didattici possano essere condivisi tra dentro e fuori l’aula. Il punto è non perdere di vista la continuità dei percorsi educativi. poiché, come sosteneva Dewey, è proprio la continuità l’elemento che rende educativa una tale esperienza”.

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