Abilitazione ai dottori di ricerca, una questione di riconoscimento.Lettera

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Rispondo a titolo personale alla lettera di un collega (consultabile al link: http://www.orizzontescuola.it/dottorato-abilitazione-sconosciuti-lettera/) il quale pone dei dubbi sul procedimento di impugnativa che alcuni oppongono per far riconoscere il Dottorato di ricerca quale titolo abilitante all’insegnamento.

inviato da Daniele Iannotti – Vorrei disarticolare le argomentazioni, apparentemente di buon senso, che lo stimato collega adduce a sostegno della propria tesi e per farlo mi vedo costretto ad un pedante, quanto necessario, procedimento di confronto sui punti più controversi che emergono dalla succitata lettera.

Per prima cosa, la definizione di “abilitazione” estrapolata dai “Dizionari del corriere”. Certamente una fonte attendibile, ma credo lo sia di più quella descritta su di un testo di linguistica specializzato, la quale recita: “(dir.) riconoscimento legale della capacità di svolgere una data funzione o di esercitare una professione, un’attività; anche, il documento che attesta questa capacità [+ a, in]: abilitazione all’insegnamento; abilitazione in matematica, all’insegnamento di questa materia; esami di abilitazione” (garzantilinguistica.it).

Sembra che il vincolo sistematico all’espletamento di un tirocinio non sia discriminante e che venga piuttosto posto l’accento sul momento “riconoscitivo” della Pubblica Amministrazione nei confronti di suddette attività. Certamente si supera un esame, come ad esempio nella professione di Architetto, che poi può essere esercitata privatamente o presso Enti pubblici anche senza una minima esperienza, figurarsi un tirocinio di uno o diversi anni.

Il terzo capoverso ha per oggetto la “ricorsite”. Vero! Il nostro è il paese nel quale molti ricorsi sono pretestuosi, altri, invece, rappresentano l’unica via legale per il riconoscimento di interessi legittimi – essendo venute meno nel tempo le necessarie e tradizionali “cinghie di trasmissione” col potere legislativo ed essendo l’azione di quest’ultimo sempre più disomogenea, affastellata e spesso contraddittoria. Mi felicito col collega che non ha mai avuto la necessità di farsi tutelare in sede di ricorso; evidentemente è in possesso di qualche straordinaria virtù “legalista” rispetto a me, oppure, è semplicemente più fortunato (magari per una questione anagrafica e/o di combinazione di tempi utili nei quali è riuscito a conseguire i titoli). Pertanto, l’argomento della “ricorsite” usato come grimaldello generico è piuttosto debole.

Successivamente, parla di “graziati dal Cielo” e poi usa espressioni simili che riappaiono carsicamente lungo tutta la lettera. Mi fa piacere che Lei abbia una credenza religiosa radicata, così come mi fa altrettanto piacere che sappia per certo – avendo a disposizione una qualche fonte divina in termini di Rivelazione – che tutti coloro che hanno lavorato per un triennio siano stati graziati. A me sembra che, come lo è Lei per la questione della ricorsite, essi siano stati semplicemente stati fortunati. Al di là della contro-polemica, sembra però doveroso sottolineare che, magari in quel triennio, la professionalità “tirocinante” da Lei addotta in abbrivio sia stata in qualche modo acquisita; anche qui, perciò, lo stile argomentativo è piuttosto periclitante.

Non le sembra comunque illogico e contraddittorio l’utilizzo massivo dei docenti non abilitati in terza fascia, spesso per un intero anno, per poi disconoscerne il risultato professionalizzante – visto che si “supplisce” un/una collega nello svolgimento delle mansioni specifiche della professione? Viene riconosciuto il servizio svolto ma non il suo volto formativo. Non credo che Lei disprezzasse questa pratica quando ancora non era abilitato e quando poi, conseguito il titolo, l’ha potuta utilizzare come punteggio rispetto a colleghi meno fortunati che non hanno mai insegnato per nemmeno un giorno; o forse si annovera tra questi ultimi, perciò la sua posizione è ancor più curiosa.

Il riferimento immediatamente seguente ad una qualità del servizio non garantita è effettivamente un neo che si può estendere a qualsiasi altro tipo di tirocinio ed anche al cosiddetto “anno di prova” del docente neo-immesso, che di fatto si traduce in rarissimi casi di “bocciatura”; quindi o sono tutti geni, oppure il filtro è a maglie piuttosto larghe e rappresenta un male molto diffuso.

Proseguo poi col rilevare una “Excusatio non petita, accusatio manifesta”. Se è vero che non è mosso da invidia, poiché è anche Lei un PhD, in realtà utilizzare questo stile tradisce proprio una non conoscenza della materia e una certa dose di malizia, che procede con affermazioni e allusioni a forme di legame dei PhD coi docenti universitari (che possono valere anche negli anni della laurea, o per i membri della commissione giudicante del TFA, ecc. e l’attualità è agghiacciante in tal senso). La informo che non tutti arrivano al dottorato perché hanno lo “sponsor”. Capisce che l’utilizzo di questo argomento è stantio e inelegante?

Il tema poi del lavoro a scuola come “ripiego, piano B o paracadute”, è effettivamente un male storico – e dunque durevole e cronicizzato – della scuola italiana. Che differenza c’è però tra il professionista “fallito” che in passato – anche conseguendo l’abilitazione, o magari non conseguendola affatto – si è “dato” alla scuola senza passione e preparazione specifica e un dottore di ricerca, che magari ha invece insegnato durante il triennio, o anche no? Dice poi che quest’ultimo lo ha fatto con soggetti pedagogicamente e socialmente diversi dai bambini e dagli adolescenti scolastici; nulla quaestio, ma meglio soggetti diversi piuttosto che soggetti assenti (il caso del professionista che non nasce per insegnare). Un male talmente radicato nella Pubblica Amministrazione in genere che si concretizza spesso in tripli e quadrupli lavori, a scanso dell’unico vero soggetto debole: gli studenti… ah sì! Quei “perfetti sconosciuti”, mi scuso se La cito, e che Lei, invece, richiama solo alla fine e sui quali tornerò.

Il fatto che ci siano stati (solo) due cicli TFA e che molti dottori di ricerca non li abbiano superati è un ragionamento sterile. Cosa centra? Anche di concorsi ve ne sono molti di più e gli aspiranti non riescono a superarli per decine di volte, e allora? Qual è il problema? Il concorso da magistrato, ad esempio, continua ad esserci – i cicli TFA invece sono stati solo due e dopo un periodo non certo irrilevante di assenza di “meccanismi abilitanti”.

Altro elemento che dimostra scarsa padronanza della materia: che ne è di tutti coloro che sono rimasti “nel limbo” tra normative cangianti e/o che hanno rispettato l’incompatibilità tra dottorato e TFA (l’avviso che molti non l’hanno fatto, giocando sulla possibilità di conseguire il dottorato presso università private o pontificie e il TFA nella pubbliche – sfuggendo spesso così a controlli incrociati). Perché non scrive contro questi suoi colleghi disonesti?

Sul riferimento alla pedagogia ho già in parte detto qualcosa. Mi lasci esprimere qualche perplessità sulla effettiva spendibilità pratica di queste nozioni – stante l’utilità teorica, specialmente per alcune “provenienze scientifico disciplinari”, alle quali un po’ di pedagogia non fa certo male. Ebbene, se c’è da studiare qualcosa, la si studia ma poi deve essere messa in pratica. E La informo che alcuni colleghi “tfini” non sono capaci di “reggere una classe” esattamente come può esserlo un neo-laureato di primo pelo. Ergo, le generalizzazioni non servono. L’abilitazione non si concretizza in una transizione ontologica, cioè necessaria, da un soggetto che conosce la materia – ammesso sia vero – a uno che la sa anche insegnare.

La metafora del dottore è piuttosto ilare, proprio per quanto espresso da me nel precedente capoverso, poiché nulla garantisce la capacità di quel dottore, oppure il fatto che sia sempre adeguato a tutte le sfide che ha dinnanzi a sé. L’esperienza è importante, e molti tfini non ne hanno, lo ripeto. Se poi venissero studiate procedure realmente selettive, non ho timore alcuno… ognuno sparerà la polvere che ha nella propria scarsella.
Quando poi parla della tipicità dei programmi scolastici che possono ingenerare situazioni di docenti costretti a insegnare materie delle quali nulla sanno, La informo che questo dipende dalla composizione ed accorpamento massivo delle classi di concorso e non a causa del dottorato. Se ad esempio si insegna filosofia provenendo da altri studi e non avendola mai fatta a scuola (se si viene da un non liceo) non è colpa né del TFA né del dottorato che gli esami integrativi per la classe di concorso in oggetto non rendano il docente abbastanza competente da insegnarla… come non dipende da essi l’esatto contrario – dipende solo dal/dalla docente.

La cosa ancora più divertente è che la scuola sta utilizzando il “mantra delle competenze”, mentre ai docenti chiede sempre e solo nozioni; nozioni per accedere al ruolo e nozioni per aggiornarsi, magari pagando per una formazione del tutto scarsa. E qui veniamo ad un altro punto: il “cospicuo” riconoscimento del dottorato nelle graduatorie d’Istituto. La informo che il dottorato è equiparato in sede di mobilità proprio a quegli altri titoli che spesso si possono comprare e tutti possono essere riconosciuti ad un docente nel massimo di 10 punti.

Il dottorato, per essere veramente valorizzato, dovrebbe invece essere computato in una sezione a parte, come quella della lingua straniera o dell’informatica (anche nelle GI). Prendere anche una seconda laurea, magari coerente col proprio profilo, nella quale vengono riconosciuti molti CFU non è la stessa cosa di farsi un triennio dottorale da zero… nel quale i rapporti idilliaci che Lei prima richiamava tra dottorando e docente universitario ci sono, così come spesso si manifestano forme di scontro e di dura reazione contro le baronie – e anche questo non Le dovrebbe sfuggire se ha un PhD.

Mi sembra che ci siano due piani logici incoerenti nelle Sue affermazioni: se si decide di disquisire su di un livello generale, essendo la legge generale e astratta, allora si dovrebbe evitare di fare riferimento a vicissitudini reali (come quella dei colleghi che si parcheggiano a scuola in attesa dell’università, ecc.). Altresì, se giustamente si vuole tenere conto delle storture particolari per correggere dei guasti nel comune interesse, allora si devono evitare inutili, sterili e dannose generalizzazioni.

Ce ne sono tante contro la classe insegnanti e se iniziamo una lotta interna non se ne esce più illesi. Io stesso nello scrivere questa lettera mi sono astenuto dal riportare i dettagli della mia situazione, cercando di rappresentare il nucleo generale della questione in risposta alle Sue osservazioni, piuttosto oscillanti in realtà tra particolare e generale.

Chiudo infine proprio col suo richiamo agli studenti. Mi pare che l’unica traccia di un interesse nei loro confronti, anche piuttosto retorica, sia da Lei apposta solo alla fine della sua avvincente lettera. La scuola è purtroppo solo questo, prima beghe interne e lotte tra poveri e poi l’interesse degli studenti. La “guerra tra poveri” però è fatta da chi lotta per un riconoscimento di diritti e chi invece, dentro il “clan”, lotta affinché altri ne restino pregiudizialmente fuori. Capisce la differenza? C’è chi fa un ricorso per sé e chi ne fa uno contro altri. Non mi pare ci sia traccia di questi comportamenti nei manuali di pedagogia… mentre c’è traccia dei meccanismi tipici dei clan in quelli di antropologia culturale e in quelli di sociologia. Come vede, sappiamo anche essere interdisciplinari, l’avrebbe mai detto?

Roma 01/10/2017
Daniele Iannotti

Dottorato e Abilitazione: questi sconosciuti. Lettera

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