Abbiamo ancora bisogno di maestri?
Sull’ultimo numero della rivista Insegnare del CIDI (Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti), Giuseppe Bagni, riferendosi agli ultimi episodi di violenza a scuola, riflette su quanto sia azzardato e miope vagheggiare la scuola rigorosa e gerarchica di un tempo, evidenziandone un macroscopico limite nel non aver fornito strumenti contro l’analfabetismo funzionale che affligge il 71 per cento della popolazione.
Per un certo taglio che il Presidente del CIDI dà alle sue riflessioni, per esempio quando afferma che la didattica dovrebbe tenere in maggior conto le conquiste della pedagogia e della psicologia dell’età evolutiva, ci siamo sentiti chiamati in causa direttamente anche noi, che da questa tribuna siamo stati più volte critici nei confronti della visione ‘panpedagogica’ della scuola.
L’idea che mi sono fatta io come giornalista e come insegnante si può schematizzare in questo modo: invocare, di questi tempi, una scuola più gerarchica e più rigida è un modo forse un po’ semplicistico, senz’altro parziale, ma di sicura efficacia comunicativa, per affermare che una parte consistente della società sente il bisogno di una istituzione profondamente rinnovata, fondata su persone – i docenti – pronte ad incarnare nei loro comportamenti quotidiani valori certi, valori per cui – qui ci vuole un po’ di verve risorgimentale – sarebbero disposti a morire (“La nostra generazione ha avuto dei maestri, li ha conosciuti e riconosciuti, ed è rimasta fedele alla loro memoria” scriveva Franco Antonicelli nell’introduzione a Scuola classica e vita moderna di Augusto Monti). Dire no ai genitori nella scuola è come dire: siamo pronti a ridarvi tutta la fiducia che abbiamo perso nei vostri confronti, adesso dipende tutto solo da voi. Chi, tra noi insegnanti, potrebbe tirarsi indietro?
Vorrei porre una domanda a Giuseppe e a tutti quelli che leggono: è un prodotto della storia e quindi non ci si può far nulla, ma quanta responsabilità dell’attuale crisi di identità della scuola spetta anche al naufragio dell’idea della conoscenza come viatico per affrontare meglio la vita e le dure prove a cui ci sottopone? All’aver seppellito la speranza che possa essere proficuo, almeno in una certa fase della vita, proporre un modello di scolaro, di maestro o di uomo ideale?
E’ affascinante scoprire come la letteratura e le arti in generale diano spazio di cittadinanza all’irregolare, al perverso, all’irrazionale, ma dov’è oggi la nostra catarsi?
Solo per completare il rimando, quando i Greci mettevano in scena tutto l’orrore del mondo nelle sublimi tragedie che ancora oggi studiamo e rappresentiamo, nel contempo offrivano sistemi di pensiero ed etiche di comportamento molto coese e coerenti, certo consapevoli che non tutti avessero la stessa tensione ideale verso la verità di un Edipo o la stessa forza, criminale e pietosa insieme, di una Medea.
Oltre alla persona ideale, fino a poco tempo fa esisteva poi anche – e se non sbaglio è ancora alla base di tutte le Costituzioni democratiche – un tempo ideale: quello dedicato agli altri e alla costruzione di un mondo migliore. Noi davvero consideriamo accettabile, ora che si profila un mondo attuale e futuro tremendamente più complicato di quello che abbiamo conosciuto, passare alle giovani generazioni l’idea che il tempo più pieno e più bello, quello per cui val la pena vivere, sia quello della classe capovolta in cui si apprende con meno fatica, dello svago, del tempo libero, del pomeriggio senza compiti, della testa vuota?
Ho citato la classe capovolta e, da brava laudatrix temporis acti, non posso risparmiarmi una nuova piccola apologia della lezione frontale (che poi è senz’altro dialogica, interattiva, problematica, aporetica), quel momento sacro in cui chi è più avanti nel suo percorso di vita e di conoscenza dispensa agli altri istruzioni preziose su come orientarsi nel proprio.
Scusa Beppe se torno a ripeterlo, ma il momento in cui impariamo di più è quello in cui sappiamo ascoltare gli altri, se rinunciamo a promuovere questa attitudine nei nostri studenti, a che cosa li prepariamo? A essere, nella migliore delle ipotesi, buoni interpreti delle istruzioni altrui, nella peggiore, esecutori passivi inclini a identificare l’impegno attivo prima nell’ossessione ottusa del fare e poi in quella, certamente non meno dannosa, del valutare (giunti a un tale livello di pessimismo, diventa certo molto difficile fidarsi di qualcuno).
Chi, quindi, forse un po’ bruscamente propone il ritorno a un maggiore rigore dentro le aule di scuola potrebbe avere come vero obiettivo quello di tornare a porre la centralità di una questione che in nessuna aula universitaria o corso di formazione o di abilitazione si vuol sentir nominare: la cultura deve essere chiamata o no a ridefinire il valore e il significato delle categorie fondamentali della vita associata? Vogliamo ancora o non vogliamo più una pedagogia militante intesa come trait d’union tra sapere e esperienza collettiva?
E soprattutto, perché non sono le scuole, così capillarmente diffuse su tutto il territorio nazionale, così potenzialmente rivoluzionarie, a “spezzare il circolo chiuso di impotenza e paura, in cui si rivela la contagiosa inferiorità dell’ignoranza” (Norberto Bobbio, Invito al colloquio, ora in Etica e politica, Mondadori 2012, p. 731)? Perché non trasformiamo le scuole, tutte le scuole, in centri di rinascenza?
Promuovere discussioni e dibattiti sulla politica, questa è un’idea operativa, fin dalle medie, riconducendo le scienze nell’alveo della politica, facendole uscire dalla loro purezza sterile, consapevoli che anche nei momenti più bui il miglior sapere può tradursi in benessere e civiltà, parafrasando ancora il famoso filosofo.
A questa mia visione è sottesa l’idea che non possa assolutamente darsi, nella scuola, un rapporto affettivo tra generazioni che non sia solidamente basato sulla cultura, con i docenti che, in virtù della loro maggiore età e maturità, sono i punti di riferimento per mostrare come ‘affetti’ e ‘concetti’ possano convivere, se non addirittura sovrapporsi. Gli insegnanti possono tornare a essere maestri di vita civile, dando il senso della serietà e della drammaticità della vita, educando alla complessità, imponendo regole severe di impegno e di abnegazione.
Giusto su questo, ho un’altra osservazione da fare a Bagni: lui dice che un quindicenne non è la metà di un trentenne, ma riconoscere specificità sempre maggiori all’età dell’adolescenza rispetto all’età adulta significa scavare un solco via via più profondo tra le generazioni, mentre in un momento storico come quello attuale – in cui dobbiamo combattere insieme perché davvero ci giochiamo tutto, chiamati come siamo ogni giorno a decidere se conformarci alle idee di giustizia e libertà o alla legge della giungla – dovremmo avvicinare le distanze anziché aumentarle.
Giacché abbiamo parlato tanto di ideali in questo articolo, ecco la figura di un maestro in carne e ossa come ancora la tratteggia Bobbio nel suo Compagni e maestri: “Parli di poesia o di politica, letteratura o di scuola, Fiore [Tommaso Fiore, ndr] propone e ripropone nei suoi discorsi sempre due temi fondamentali. Il primo è la nobiltà dell’uomo: di tutti gli uomini, per cui non dobbiamo mai stancarci di sondare in ognuno dei nostri simili il fondo di umanità, e di farne risaltare l’essenza profonda. Di qua la sua fiducia, mai venuta meno, nei giovani, la sua vocazione pedagogica, di cui sono testimonianza le lettere a Mario Melino, recentemente pubblicate. Non posso dimenticare con quale trepidazione e con quale sentimento di simpatia umana parlasse due anni or sono a degli studenti in sbigottita attesa di sostenere l’esame di maturità dinanzi alla commissione di cui era presidente in un liceo torinese. E ogni giorno offriva, gesto regale, un mazzo di fiori al migliore. Insieme con la nobiltà, il secondo tema è quello, strettamente connesso, della sofferenza dell’uomo, che è alcune volte abiezione, tanto bassa da cancellare ogni vestigio di dignità, ma che deve essere compresa e più che compresa assunta come un peso da portare, come una responsabilità da assolvere, come un compito da eseguire, perché in questo modo soltanto può essere redenta. A furia di parlare di umanesimo, questa parola si è svilita e corrotta tanto che non abbiamo più il coraggio di usarla. Eppure sino a che ci sarà consentito di usarla – e non ne troviamo altra migliore – per riassumere in una formula il messaggio civile di Tommaso Fiore, non avrà perduto tutta la sua forza rappresentativa. Umanesimo come quella concezione della storia per cui questo mondo delle nazioni, avrebbe detto il Vico, è stato pur fatto dagli uomini, e poiché è stato fatto dagli uomini – aggiungiamo noi moderni, con maggiore consapevolezza del nostro potere e della nostra responsabilità -, non solo possiamo conoscerlo, ma dobbiamo continuamente farlo e rifarlo a immagine e somiglianza dell’uomo ideale che la storia di volta in volta ci addita” (N. Bobbio, Etica e politica, 2012 Mondadori, p. 318-319).
E, dopo la grande filosofia italiana del Novecento, è sacrosanto unirci a una voce che solo in apparenza viene da lontano, quella di Chimamanda Ngozi Adichie (citata la scorsa settimana da Giovanni De Mauro su Internazionale) che così si rivolge ai suoi studenti di Harvard : “Siate abbastanza coraggiosi da riconoscere cosa ostacola la verità: l’intelligenza fine a se stessa, l’ironia senza nessun principio morale, il desiderio di compiacere, l’offuscamento deliberato”.