30 agosto 2010: una giornata trevigiana di nomine a tempo determinato

Di Lalla
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Alessio Nappi – La sveglia suona presto perché io e Luisa dobbiamo parcheggiare la bimba. Non vogliamo farle respirare l’aria putrida di un’aula affollata all’inverosimile. Arriviamo alle 9 passate, poco prima dell’inizio: sappiamo che, come al solito, i tempi si dilatano, i ritardi immancabili, i chiarimenti normativi, le richieste continue faranno slittare tutto a metà mattinata.

Alessio Nappi – La sveglia suona presto perché io e Luisa dobbiamo parcheggiare la bimba. Non vogliamo farle respirare l’aria putrida di un’aula affollata all’inverosimile. Arriviamo alle 9 passate, poco prima dell’inizio: sappiamo che, come al solito, i tempi si dilatano, i ritardi immancabili, i chiarimenti normativi, le richieste continue faranno slittare tutto a metà mattinata.

Ci sono i giornalisti a riprendere la folkloristica protesta dei precari vestiti a lutto, con in mano una confezione di fegato, testimonianza della carne da macello cui una pseudoriforma ci sta destinando. Mi si fa incontro un collega: "come stai?", mi chiede. "Hai visto che roba?". “Sì”, rispondo: ormai ci capiamo con poco. "Che miseria", gli dico. "Già, in bocca al lupo" e si allontana. "Crepi. Ciao".

Alcune, ben oltre la trentina, sono incinte: hanno aspettato fin che potevano un ruolo che non sarebbe mai venuto. Adesso non c’è più molto tempo per ragionare. "Auguri Katia", appena mi si fa innanzi una collega con un bel pancione. "Finalmente", aggiungo. Mi sorride. Era meglio se stavo zitto. Rimedio con l’ovvio e la formalità.

Questa volta, però, i ritardi aumentano: mi ci metto anch’io, certo dell’errore, l’ennesimo, del mio ufficio scolastico provinciale, dimentico di alcune cattedre di cui tutti sono a conoscenza, meno – ovviamente – il direttore amministrativo, proprio colui che è delegato ad autorizzare la concessione di qualche posto in più.

Ma a chi chiedere? Gli addetti alle nomine, semplici burocrati, non sanno che pesci pigliare. Con l’arroganza di chi si sente investito di poteri di vita e di morte, mi si ribatte che, tempo massimo 10 minuti, avrebbero cominciato. Inutile dirgli che avevo parlato con il mio ex preside, il quale mi rassicurava dell’errore commesso.

Piuttosto che fare marcia indietro, meglio assegnare posti inesistenti! Si sa, la burocrazia declina ogni responsabilità. Lo richiamo, come da accordo, e con la straordinaria disponibilità di un uomo di scuola si precipita nel tentativo di salvare il salvabile. Altri chiamano la polizia, sperando di ottenere – dinanzi ai tagli drammatici di quest’anno – quel posto in più, valido semplicemente a sopravvivere.

Arrivano in due, stranamente solerti. Un applauso al loro ingresso. Tutto si blocca. Le poche nomine fatte fino a quel momento sono il segnale di una lunghissima ed estenuante giornata. Per fortuna non fa assolutamente caldo. Anzi, il tempo volge al brutto. Si discute, il telefono squilla spesso, i poliziotti confabulano tra di loro, i sindacalisti ridacchiano perché "era ora eccheccazz!", si arriva a minacciare per interruzione di pubblico servizio, i giornalisti cercano di capire quale sia il problema e che cosa significhi un’assegnazione provvisoria non segnalata. Poco importa essere precisi, l’importante è che facciano il pezzo: un po’ di merda sull’ufficio scolastico di Treviso, che in questi anni tanti disagi ci ha regalato, non fa mai male! Intanto mia moglie si preoccupa per Vittoria: "si farà tardi, mi dice, povera piccola tutto il giorno da sola". Sapendo di mentire la rassicuro: nel primo pomeriggio saremo a casa. In realtà uno spiraglio si apre.

Ma è solo per noi docenti di storia e filosofia: il dirigente scolastico della mia ex scuola, non pago di aver inviato un fax, riesce a far comparire un posto in più. Si gioisce. Mi chiama e mi fa gli auguri per le nomine. Lo ringrazio, a nome di tutti i colleghi. Si tratta di rifare i conti daccapo: con quel posto in più forse ce la facciamo anche noi.

Per gli altri nulla da fare: non hanno dirigenti scolastici così straordinari. Per loro la partita è persa: ha vinto la burocrazia. Due cattedre ci saranno, forse, ma non certo oggi. Oggi prendano quello che c’è. "Ma così mi costringete ad accettare uno spezzone o posti lontanissimi", obietta qualcuno. "Non sappiamo che cosa dire. Facciamo quello che ci ordinano". Sì, la burocrazia ha trionfato.

Iniziano con le scuole medie. Tra continui balzelli, di chi chiede di passare alle altre classi di concorso, i posti cominciano a diminuire. E’ un massacro: i tre spezzoni di latino e greco spariscono subito e alcuni sono costretti a ripiegare alle medie, dove non hanno mai insegnato. Del resto bisogna pur mangiare. Gli altri… gli altri non sono più niente. A proposito, ci viene fame. E’ da un pezzo passata l’una. C’è coda al bar, ma dico a mia moglie di restare dentro: non si sa mai a qualcuno venisse l’idea di passare alle nomine di filosofia. "I toast sono finiti, ma se vuole glieli faccio". Non importa. "Mi dia quei due panini, va bene così". Pago e torno in aula. Inutile la mia fretta. Sono ancora alle medie.

“Guarda che bravo quel bambino”, mi desta mia moglie. “E’ stato tutto il giorno senza lamentarsi”. Avrà sui 3 anni. “Già”, le rispondo. “Non si merita tutto questo”.

Davanti a me si prepara un collega: tira fuori il documento per accettare la sua nomina. "No", grida. Si è presentata, per la prima volta, una ragazza che lavorava in una paritaria. Era l’ultimo posto. "Ma come, lasciare una privata in questo periodo?". Già, mistero. Ma i posti sono finiti. Si procede. Anche gli addetti alle nomine sono diventati più disponibili. La stanchezza, a volte, fa miracoli.

Noi siamo gli ultimi. Sono le 18 passate. Il totonomine è già fatto: tutti sanno tutto. Mia moglie è la solita che non sa cosa fare. "Quello che ti senti", le dico. Arriva il mio turno: rinuncio alla cattedra di sostegno presa sabato e riesco a tornare nella "mia" scuola. Chiamo il preside e lo ringrazio. Il prossimo anno vedremo. Sono troppo stanco per pensare ai tagli. Luisa riesce a prendere uno spezzone. E’ andata!

Salutiamo i pochi superstiti e raggiungiamo l’uscita. Un gruppo di ragazzi mi si fa incontro. Sono quelli del bambino. "Possiamo chiederti dov’era la tua cattedra di sostegno?". "A Montebelluna", gli rispondo. "Grazie, grazie. Ci hai fatto un piacere. Speriamo venga rimessa in gioco e arrivi a noi". "Lo spero – gli dico -. Ma voi di quale classe di concorso siete?". "La A037". E’ la mia, ma io non ricordo di averli mai visti. Sono troppo in basso per poter sperare di lavorare. Li guardo meglio. Avran quarant’anni. Mi fanno tenerezza perché privi di rabbia e disperazione. Rassegnati. Io e mia moglie ce l’abbiamo fatta. Non riesco a non sentirmi fortunato.

“Allora possiamo andare a casa, mamma?”. Sono le parole che riesco ad ascoltare, dietro le mie spalle, prima di varcare la soglia. “Sì, è tutto finito, amore. Adesso andiamo”.

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