Israel: sì a valutazione tra docenti, ma mentor potrebbe diventare una casta. Scuola-lavoro ci vogliono le risorse

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Rapporto di autovalutazione? Inutile, se non addirittura dannoso. Mentre potrebbe essere utile sottoporre il complesso delle valutazioni di una o più classi sui lavori scritti ai docenti di altre scuole e della stessa materia, e poi mostrare l’esito a una commissione di valutazione dell’istituto di partenza.

Rapporto di autovalutazione? Inutile, se non addirittura dannoso. Mentre potrebbe essere utile sottoporre il complesso delle valutazioni di una o più classi sui lavori scritti ai docenti di altre scuole e della stessa materia, e poi mostrare l’esito a una commissione di valutazione dell’istituto di partenza.

E poi ancora: modello tedesco per alternanza scuola-lavoro? Il nostro sarebbe meglio, se ci fossero le risorse. Intervista a tutto campo con Giorgio Israel, docente di matematica alla Sapienza di Roma.

Negli ultimi giorni il Senato ha accolto positivamente alcune istanze provenienti dalla VII Commissione relativi a valutazione dei docenti e riconoscimento del loro operato, nell’ottica del decollo di un sistema misto che premi anzianità e merito. Nella stessa risoluzione è stata inserita la richiesta di far entrare nel nucleo di valutazione anche un rappresentante dei genitori e uno degli studenti (nella scuola superiore di secondo grado). Che cosa ne pensa?

“Preferirei astenermi da un commento in assenza di una specificazione puntuale e dettagliata di come dovrebbe funzionare questa valutazione: composizione precisa del nucleo di valutazione, modalità della valutazione, determinazione del peso delle due componenti del sistema “misto”. Occorre purtroppo constatare che, da molti mesi, siamo di fronte a un diluvio di annunci e di esternazioni di “propositi” alquanto vaghi cui non segue nulla di preciso (e spesso incompatibili con la scarsità, se non l’assenza, di risorse) e di cui non si capisce come si inseriscano in un disegno complessivo. È una situazione alquanto deprimente”.

E’ oggetto di un animato dibattito se il lavoro di un insegnante si debba valutare solo nella sua dimensione individuale o piuttosto in quella di squadra. Lei che ne pensa?

“A mio avviso, ha senso soltanto valutare l’istituto scolastico nel suo complesso e l’insegnante nella sua dimensione individuale (a parte tutte le riserve circa cosa si debba intendere per valutazione e come si debba conseguire e, in fin dei conti, che uso farne). Ho sempre detestato l’assegnazione di un voto ai “lavori di gruppo a scuola”: è qualcosa che può funzionare a livelli elementari, cioè nella scuola primaria, anche come metodo per coinvolgere i bambini in difficoltà. Ma quanto più l’età è avanzata, si tratta di un tipico sistema per premiare i nullafacenti e penalizzare chi si impegna di più, il quale traina la squadra non traendone alcun vantaggio, e induce i peggiori a restare comodamente nella loro condizione. Figuriamoci al livello degli insegnanti… Altra faccenda è il confronto sulle metodologie d’insegnamento tra docenti della stessa area (matematica, italiano, ecc.). Questo è molto utile, ma non ha niente a che fare con la valutazione”.

Quest’anno per la prima volta le scuole saranno chiamate a redigere un Rapporto di autovalutazione in cui evidenzieranno pregi e difetti della loro struttura. E’ fiducioso sulla possibilità che il Rav possa diventare uno strumento di miglioramento di qualità del nostro sistema di istruzione? Ce ne potremmo servire anche per il riconoscimento del ‘merito’ degli insegnanti o resta essenziale l’intervento di un nucleo esterno che certifichi competenze e attitudini del corpo docente?

“Conosco bene questo tipo di autovalutazioni mediante questionari, per averle viste all’opera nell’università, dietro le prescrizioni dell’Anvur (Agenzia di valutazione della ricerca) per pensarne tutto il male possibile. Trattasi di una burocratizzazione per molti aspetti demenziale, che sottrae una gran quantità di tempo al lavoro didattico e disperde le migliori energie senza alcun frutto, anche perché chi ha un minimo di abilità può facilmente eludere i punti critici delle griglie di valutazione. È qualcosa che piace a chi preferisce passare il proprio tempo a redigere scartoffie anziché dedicarsi alla funzione per cui è stato assunto, l’insegnamento, e quindi fa emergere gli elementi peggiori (come si è visto nell’università). Per il riconoscimento del merito è più che essenziale, ineludibile, la valutazione di nuclei non esterni alla scuola ma esterni all’istituto scolastico in questione”.

Allude forse all’idea, di cui si è discusso in Senato in questi giorni, che a valutare i docenti siano i docenti stessi osservandosi tra di loro (peer review)?

“Proprio così. Il metodo della valutazione tra pari è l’unico sistema concettualmente corretto. Beninteso, si tratta di definire le modalità di tale processo di valutazione, che non può essere la “peer review” del mondo della ricerca scientifica, poiché non è obbligo dell’insegnante di scuola produrre lavori scientifici, ma un sistema di valutazione mediante nuclei ispettivi composti da altri docenti. Tuttavia, non la vedo facile perché è un sistema costoso. Si potrebbe intanto mettere in opera un sistema di confronto reciproco delle valutazioni di tipo campionario: si sottopone il complesso delle valutazioni di una o più classi sui lavori scritti ai docenti di altre scuole e della stessa materia, e l’esito viene sottoposto a una commissione di valutazione dell’istituto di partenza. È un sistema che viene usato in alcuni paesi stranieri a livello universitario, e non vedo perché non debba essere praticabile a livello scolastico”.

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Come giudica l’innovazione contenuta nella Buona Scuola che rimette in mano alle singole scuole autonome l’individuazione dei docenti mentor o di quadri intermedi? Pare ci siano spinte per rimettere di nuovo tutto in mano a costosi e complicati concorsi…

“In un paese che ha il tic della burocratizzazione e della costruzione di figure inamovibili come l’Italia, sarei massimamente diffidente nei confronti di queste trovate. I docenti mentor rischiano di diventare una casta di docenti privilegiati che insegnano a insegnare e non insegnano più, o comunque molto meno, viste le loro funzioni “superiori”. La gerarchia dei ruoli – cui si accede per via concorsuale – ha luogo nell’università relativamente alla funzione della ricerca scientifica (il professore ordinario ha funzioni di coordinamento che non hanno i ruoli inferiori). Nel caso della scuola, l’unica differenziazione dovrebbe essere quella di coordinare le modalità dell’insegnamento, ovvero determinare come “insegnare a insegnare”. Vade retro… E comunque siamo di nuovo di fronte alla politica degli annunci: dove si troveranno le risorse per un simile sistema, quando ancora non si riescono neppure a riparare i gabinetti rotti, nonostante i tanti annunci in merito?”.

In un convegno di questi giorni a Roma organizzato dall’Associazione Treellle si è discusso delle differenze tra il nostro sistema scolastico e quello tedesco, spesso richiamato come possibile modello specie per quanto riguarda l’alternanza scuola lavoro. Secondo lei, invece, quale sistema straniero potrebbe essere preso come punto di riferimento per il nostro Paese?

“L’Italia scelse come modello una miscela del sistema tedesco e francese dopo l’Unità, ovvero un secolo e mezzo fa, creando un sistema con aspetti originali che ha avuto molto successo, è stato apprezzato all’estero e si è evoluto nel tempo con importanti interventi legislativi che, in molti casi hanno avuto effetti positivi, in altri (più recenti) assai meno.

Non vedo proprio la necessità di “copiare” sistemi esteri che non funzionano affatto meglio del nostro, salvo per una maggiore disponibilità di risorse e un trattamento stipendiale degli insegnanti meno indecoroso. Pensiamo piuttosto a ripartire dalla nostra esperienza e dalla nostra storia, riflettendo su quanto essa contiene di positivo che va preservato e valorizzato, e quanto di negativo è stato aggiunto con sperimentazioni fasulle e interventi legislativi senza capo né coda, spesso ispirati a teorie pedagogiche più che discutibili. E riflettiamo a come questa tradizione – “ripulita” dalle scorie di vecchiumi che non reggono più e di novità scervellate – possa essere contemperata con alcune esigenze didattiche poste dalla contemporaneità (il rapporto con il mondo produttivo nelle sue forme attuali, le nuove tecnologie digitali, ecc.).

Chi propone il modello tedesco, soprattutto per quanto riguarda l’alternanza scuola-lavoro, non soltanto non dice che tale alternanza ha senso soltanto per determinati strati dell’istruzione (e non mi riferisco soltanto all’istruzione umanistica, ma anche a quella scientifica a forte orientamento teorico, che serve eccome), ma non dice che il modello tedesco risponde a una visione pauperista per cui i bassi tassi di occupazione sono mantenuti spingendo i giovani a impiegarsi su mansioni di bassissimo livello, retribuite con poche centinaia di euro, salvo poi salire pian piano.

Siamo sicuri di volere questo? Inoltre, non ci si dice che in Germania cresce il “pentimento” per aver ridotto i licei a quattro anni e aver svilito il liceo classico, e si guarda al modello italiano, proprio mentre molti da noi incitano a seguire la via contraria. Quanto ai modelli anglosassoni, sono troppo diversi dalla nostra tradizione per poterli prendere a riferimento; senza contare che non sono affatto modelli di efficienza e qualità, a meno che non si pensi a un sistema scolastico in cui il settore pubblico è a livelli infimi (in cui il problema principale è che lo studente non venga a scuola con la pistola) e chi vuole far studiare ad elevati livelli i propri figli deve spedirli in costose scuole private dove la mattina si entra in divisa… Se si desidera gettare alle ortiche il meglio della tradizione universalistica dell’insegnamento cui apparteniamo, ci si accomodi, basta dirlo senza infingimenti”.

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