Insegnante di sostegno. Le scuole dell’inclusione ne hanno bisogno? (prima parte)

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di Lucio Cottini, Professore ordinario di Didattica e Pedagogia Speciale, Università di Udine, Presidente della Società Italiana di Pedagogia Speciale (SIPeS) – Cercare di promuovere sempre più la scuola come un contesto realmente inclusivo, che ricerca il successo formativo per tutti gli alunni, nessuno escluso, richiede una riflessione approfondita e una operatività nuova su vari piani: da quello organizzativo, a quello metodologico, per arrivare a quello più prettamente connesso con l’impiego adeguato delle risorse.

di Lucio Cottini, Professore ordinario di Didattica e Pedagogia Speciale, Università di Udine, Presidente della Società Italiana di Pedagogia Speciale (SIPeS) – Cercare di promuovere sempre più la scuola come un contesto realmente inclusivo, che ricerca il successo formativo per tutti gli alunni, nessuno escluso, richiede una riflessione approfondita e una operatività nuova su vari piani: da quello organizzativo, a quello metodologico, per arrivare a quello più prettamente connesso con l’impiego adeguato delle risorse.

Parlare di operatività rinnovata non significa certo accantonare una storia dell’integrazione scolastica lunga quarant’anni, che ha indirizzato i propri sforzi al tentativo — a volte riuscito, a volte meno — di evitare qualsiasi forma di discriminazione per gli allievi con disabilità, assicurando loro le stesse opportunità dei compagni, almeno relativamente alla frequenza di contesti comuni.

Nelle situazioni in cui questa scelta strutturale si è coniugata con una progettualità integrativa forte, centrata sia sulla promozione di apprendimenti funzionali, che di interazioni significative, i risultati sono stati rilevanti e non solo per gli allievi con disabilità, ma anche per i compagni e per l’intera comunità scolastica e sociale.

Questo orientamento, comunque, si è andato a sviluppare mantenendo in molte, troppe, situazioni una debolezza di fondo: quella di puntare in larga misura sull’adattamento dell’allievo con disabilità a un’organizzazione scolastica strutturata fondamentalmente in funzione degli alunni tipici, poco disponibile a modificarsi per accogliere tutti. Il problema, di fatto, è stato interpretato come principalmente, quando non unicamente, riferito all’individuo, alle sue carenze e alle sue particolarità, senza porre la necessaria attenzione all’organizzazione dell’ambiente e della didattica, la quale, se non tiene conto della pluralità degli allievi e delle loro caratteristiche specifiche, finisce inevitabilmente per favorirne alcuni a discapito di altri.

La dimensione dell’inclusione, se correttamente interpretata e praticata, può rappresentare un reale passo in avanti in questa direzione, necessario per perseguire l’obiettivo di promuovere una scuola delle differenze. Tale prospettiva porta a considerare la diversità di ognuno come una condizione di base, un “a priori” di cui tener conto per costruire ambienti in grado di accogliere tutti. Non viene negata, in sostanza, l’esistenza dei bisogni particolari, che per alcuni allievi sono davvero molto speciali, ma si invita a considerarli in una dimensione anche sociale, di sistema, e non come semplice deficit degli individui. Come sostengono Booth e Ainscow (2002) nel loro “index per l’inclusione”, è opportuno parlare di ostacoli all’apprendimento e alla partecipazione, i quali non sono solo ascrivibili agli individui e che, come tali, bisogna cercare di rimuovere o almeno di attenuare nella loro valenza negativa. Non si tratta, in altre parole, di includere gli allievi nella classe, sostituendo in questo modo solo il termine integrazione con uno maggiormente accattivante, ma rendere inclusivi i contesti, i metodi e gli atteggiamenti per tutti.

Ora bisogna chiedersi, come fa il titolo di questo contributo, se per il perseguimento di tale obiettivo, da tutti condiviso anche alla luce della realtà sempre più plurale delle nostre classi, l’insegnante di sostegno, come figura e come ruolo, possa essere una risorsa importante o, al contrario, un freno e un impedimento.

La mia convinzione, lo dico da subito, è decisamente rivolta alla prima opzione, anche se alcune criticità di sistema debbono essere necessariamente superate o corrette.

Cerco di argomentare questa posizione partendo da qualche breve considerazione sulla prospettiva inclusiva, utile per fissare alcuni elementi di supporto alla riflessione.

1. I tre piani dell’inclusione

Il dibattito e il confronto sull’inclusione scolastica può essere orientato su tre piani, sicuramente complementari e interagenti fra loro, ma da tenere distinti per un’analisi dettagliata, che si orienti a individuare soluzioni operative in grado di garantirne la massima espressione. Questi tre piani, che rappresento graficamente nella figura 1, sono quelli dell’affermazione dei principi di riferimento; delle metodologie da mettere in campo per promuovere l’inclusione; della verifica circa la significatività operativa di tali metodologie e, più in generale, dell’efficacia reale di una scuola inclusiva. In questo contributo non andrò oltre qualche nota di sistema, ripromettendomi di sviluppare la riflessione con altri interventi successivi.

Sul piano dei principi, l’orientamento inclusivo non può essere messo in discussione, in quanto concerne il diritto di tutti gli individui, qualunque sia la loro condizione, ad avere accesso all’istruzione all’interno di contesti comuni, non separati. L’allievo con disabilità o con altre difficoltà non è un ospite nella scuola e nella classe, ma parte integrante della stessa. Dietro a questo concetto vi è il modello sociale della disabilità, chiaramente affermato in numerosi documenti nazionali e internazionali, che sottolinea le responsabilità del contesto nel creare le condizioni di disabilità, o comunque gli ostacoli all’apprendimento e alla partecipazione degli
allievi. Questi, in altre parole, scaturiscono dal rapporto tra le caratteristiche delle persone e la maniera in cui il contesto sociale ne tiene conto. Quindi, il diritto di ognuno a fruire di una dimensione realmente inclusiva non dipende dalle risorse disponibili, quanto dall’affermazione, che deve diventare sempre più consapevolezza radicata, che per tutti gli individui devono essere previste le medesime opportunità, senza bisogno di dover chiedere e rivendicare ogni giorno i propri diritti.

Quando dal piano dei principi si passa a quello metodologico, la situazione si complica e i livelli di condivisione circa le procedure da mettere in campo, al fine di assicurare la reale fruizione di un diritto, diventano meno generali. Infatti, il dibattito su come rimuovere le barriere e attivare al massimo tutte le risorse per favorire la reale partecipazione ai processi interattivi e di apprendimento sta facendosi sempre più vivace, coinvolgendo in particolare il ruolo e la funzione dell’insegnante di sostegno, al quale storicamente è stato assegnato il peso principale di questo processo. Non è certamente recente la sollecitazione di pervenire a una programmazione sistemica per l’integrazione e l’inclusione, nell’ottica della corresponsabilità di tutto il corpo docente, superando la logica della delega a personale specifico. La normativa prevede in maniera chiara questa procedura, che purtroppo risulta disattesa da molte prassi incoerenti.

Da più parti viene sollecitata la costituzione di una reale rete di sostegno (Pavone, 2014), che dovrebbe essere un elemento naturale e permanente della comunità scolastica, rivolgersi a tutti i suoi membri (allievi, docenti, personale non docente, famiglie) senza indurre dipendenza nei fruitori, ma potenziando in loro, al contrario, la capacità di badare a se stessi. Auspicare la costituzione di tale rete di sostegno, fatta di supporti formali e informali diversificati, non sostituisce né esclude, dal mio punto di vista, il ricorso alla figura dell’insegnante di sostegno, anzi — come avrò modo di specificare meglio nel prosieguo — la giustifica ancora di più come
elemento di sistema, cui affidare la regia di un processo molto complesso.

In aggiunta a questi aspetti che fanno riferimento al piano organizzativo, la prospettiva dell’inclusione per tutti gli allievi passa anche attraverso un affinamento delle procedure didattiche, che debbono promuovere il ruolo attivo di ogni allievo, facilitando la partecipazione di tutti, oltre a stimolare rapporti interattivi e di supporto reciproco. La ricerca in questo settore, sviluppata in maniera significativa anche nell’ambito della pedagogia e didattica speciale, mette a disposizione degli insegnanti una serie di strategie e di approcci di grande interesse. Anche in questo caso, non volendo appesantire troppo queste riflessioni, mi limito a una semplice elencazione attraverso la figura 2.

Vi è, infine, il piano dell’evidenza empirica, finalizzato a valutare se le procedure organizzative e le strategie didattiche adottate per promuovere il successo formativo di ogni allievo nel contesto scolastico, in una prospettiva realmente inclusiva, sono risultate efficienti ed efficaci. Si tratta di una sorta di sguardo attento, critico e anche partecipato, come quello rappresentato in figura 3, per costruire forme di conoscenza condivisa e affidabile, che non abbondano certo nella nostra letteratura.

Solo per fare degli esempi, a quesiti del tipo: “Come valutare la qualità inclusiva della scuola?”, “Quali procedure organizzative e didattiche sono in grado di migliorare la qualità dell’inclusione?”, “La scuola inclusiva è anche una scuola efficace?”, non è possibile, al momento, fornire risposte sostenute dai risultati di specifiche ricerche. A questo livello di analisi non è secondario porsi anche questioni di metodo. Insieme alla Collega Morganti (Cottini e Morganti, 2012) stiamo lavorando all’elaborazione di un modello di ricerca evidence based in educazione speciale, che non consideri affidabili soltanto le indagini classiche sui gruppi di tipo randomizzato (Randomized Controlled Trial), ma che si fondi anche su altre metodologie, comprese quelle di tipo qualitativo qualora il quesito della ricerca lo richieda.

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